Testo e foto di Gabriella Nocentini

In alcuni paesi della Sardegna il 17 gennaio, Sant’Antonio Abate, coincide con la prima uscita delle maschere dei carnevali tradizionali, che “danzano” intorno ai fuochi. Sono riti riconducibili a quelli antichissimi di fertilità legati a Dioniso, arrivato in Sardegna con i Micenei. Si tratta di vere e proprie cerimonie primitive, a volte violente che, pur nella loro diversità, attraversano il tema del sacro. Sant’Antonio è il santo degli animali ed è rappresentato con ai piedi un maialino. Nelle mitologie indoeuropee questo animale è connesso al culto dei morti. La leggenda del santo diffusa in Sardegna narra che egli va all’Inferno per prendere il fuoco e portarlo agli uomini. I diavoli non lo fanno passare, ma il suo maialino si intrufola portando un tale scompiglio che i diavoli richiamano indietro il santo per riprenderselo. Sant’Antonio entra e mette un po’ di brace nel suo bastone cavo e la porta agli uomini. Fu così che, secondo la Chiesa, essi hanno ricevuto il fuoco. Un santo legato al mondo sotterraneo, una storia che ricalca quella di Prometeo. Il Cristianesimo si è servito di questo racconto per prendere su di sé un mito molto più arcaico. Lo stesso connubio fra il santo e le maschere tradizionali sottolinea l’aspetto sacro colto anche dalla Chiesa che, non riuscendo a estirpare queste tradizioni antichissime, sente il bisogno di appropriarsene.

Ad AÙSTIS, in Piazza Italia, si prepara una sola, enorme catasta di legna, accesa anche qui il 16 gennaio. Intanto si svolge la Vestizione de Sos Colonganos. Le maschere, che sono di sughero annerito, sopra i fori per gli occhi hanno una sporgenza con dei buchi in cui vengono inseriti ramoscelli di corbezzolo,che scendono fin sul petto. Così il volto è coperto dalla maschera ed essa a sua volta dal verde del corbezzolo. Sul capo Sos Colonganos indossano il fazzoletto marrone da donna su cui viene fissata una pelle di volpe o di martora, che pendola sulle spalle. Un carico di ossi è fissato sulla schiena, sopra la mastruca nera. Sono accompagnati da Sos Bardianos, i guardiani, il viso tinto con il sughero bruciato, indossano cappotti neri d’orbace con il cappuccio. Essi tengono legato S’Urtzu, la vittima. La rappresentazione rituale prevede che venga bastonato fino alla morte. La Vestizione di S’Urtzu è più complicata: sul capo ha la testa di un cinghiale, intera con tanto di grugno, gli occhi, i denti e le zanne. Il volto dell’uomo è tinto di nero e, se tiene la testa bassa, l’effetto è proprio quello del grosso corpo del mammifero.

Poi Sos Colonganos escono e, nel silenzio assoluto, iniziano in fila la loro danza rituale intorno al fuoco. Battono per terra il bastone, mandano avanti una gamba e fanno un saltello con tutti e due i piedi, alzando e torcendo una spalla, cosicché gli ossi battono tra loro facendo un suono particolare, diverso dai campanacci, più funereo. L’oscurità, la luce saltellante delle fiamme, la danza di questi uomini-animali coperti di pelli, con il viso di foglie, il rumore ritmico degli ossi bianchissimi alla luce del grande fuoco rendono angosciante l’attesa.

Da una stradina laterale si fanno avanti Sos Bardianos con S’Urtzu, che tenta di fuggire. Sos Colonganos sempre danzando fanno un cerchio in cui entrano Sos Bardianos gridando e trascinando S’Urtzu, che cerca di scappare, cade sotto le bastonate, si rialza, cade più volte. Le urla bestiali si mescolano al suono degli ossi, mentre Sos Colonganos chiudono via via il cerchio intorno a loro,fino alla morte di S’Urtzu. Poi lentamente il cerchio si allarga e Sos Colonganos riprendono la processione, allontanandosi nel buio con il loro carico di ossi sonanti. Anche per quest’anno l’omaggio al dio della vegetazione e della pioggia, a Dioniso Mainoles, il Maimone sardo, è stato portato a termine. Ora ognuno può divertirsi. Ci sono pentoloni di zuppa di fave e molte le salsicce a sfrigolare sulle braci.