Testo di Carla Reschia

Foto di Isabella Balena

Le cronache, in bilico tra ricordo e leggenda, raccontano di piscine piene di champagne, di cameriere in mini abiti uscite dritte dalle pagine di Penthouse, di ospiti famosi o famigerati portati direttamente da New York all’aeroporto di Rijeka e quindi al più strano e inimmaginabile resort di lusso nella Jugoslavia Anni ’70.


Una storia che, con tanti colpi di scena, arriva all’oggi e a un nuovo, imprevedibile uso di  uno dei fiori all’occhiello della politica turistica di Tito, la sua personale versione di un ponte gettato tra l’Ovest capitalista e l’Est socialista.  A due passi da una delle più belle spiagge di Malinska, sull’isola di Krk, nel Quarnaro, appena nascoste dalla vegetazione mediterranea, le imponenti e accessibili rovine dell’Haludovo Palace Hotel attendono gli esploratori di rovine urbane.


All’inizio è difficile vedere e capire, poi ci si rende conto che gli edifici che fiancheggiano la passeggiata a mare sono vuoti e abbandonati e si iniziano a delineare i contorni di quello che fu un complesso di quasi centomila chilometri quadrati. Non ci sono steccati o limiti se non quelli imposti dall’attenzione e dal buon senso. Sovrastati dalla mole imponente dell’edificio principale, tra un olivo e un lentisco, cominciano ad apparire vialetti fiancheggiati da luci fantasma, residui di panchine, piscine in disarmo, bungalow diroccati, ex campi da tennis, piste da bowling sconnesse, corridoi tenebrosi, i divanetti di una discoteca, balconate e soffitti precari. E persino un piccolo e credibile mini-borgo marinaro, il Villaggio del pescatore, con il suo corredo di terrazze e ristoranti con vetrate vista mare. Tutto in rovina, occasionalmente graffitato, sempre e metodicamente spogliato di ogni reperto di un qualche valore.


Opera di un celebre urbanista dell’epoca, Boris Magaš autore anche del progetto dello stadio di calcio Poljud a Spalato, che voleva, come raccontò in un’intervista alla rivista croata Arhitektura, “creare un’atmosfera di esperienza lirica nell’architettura, ispirata alle bellezze naturali della strada costiera e raggiungere, grazie al concatenamento tra esterno e interno, una totalità spaziale”, il complesso iniziò a essere pensato nel 1969 e divenne sempre più faraonico grazie all’intervento di Bob Guccione, italo americano milionario che con la rivista Penthouse contendeva a Hugh Hefner, fondatore di Playboy, il titolo di re del porno-soft. Tutto nacque, si racconta, da un suo soggiorno a Krk, in italiano Veglia, dove il turismo era svago pioneristico per pochi avventurosi.


Qui prese forma il sogno dell’«Attico sull’Adriatico», un paradiso di divertimenti hollywoodiani nel cuore di un paese socialista. Mare, piscine, giardini pensili, locali di intrattenimento, negozi, saune, palestre, centri estetici, cottage, suite, ristoranti, bar, statue, dipinti, enormi lampadari, mobili pregiati…tutto all’insegna del lusso e alla faccia della Guerra fredda. E naturalmente massaggiatrici, intrattenitrici, ragazze da copertina alla porta accanto. Un tutto compreso da Babilonia.


Bob ci credette abbastanza da puntarci 45 milioni di dollari. Che sono una bella cifra adesso e figurarsi allora. L’asso nella manica era il “Penthouse Adriatic Club Casino” che aggiungeva al cocktail il brivido del gioco d’azzardo mentre l’Hotel Tamaris e il Palace Hotel da soli garantivano ospitalità a mille e cinquecento persone. L’investitore ufficiale era il colosso industriale “Brodokomerc” di Rjieka, un brontosauro statale a cui si affiancava l’immancabile consiglio degli operai, ma l’anima della festa era Guccione, che si prese l’impegno di investire altri cinquecento mila dollari in pubblicità sulla sua e altre riviste in Europa e negli Usa. Così spesso su più pagine di Penthouse (ciascuna per un costo di quindicimila dollari) apparivano pubblicità del tipo “Resort di un lusso stravagante dall’altra parte della cortina di ferro”. Ne subì il fascino anche Saddam Hussein, raccontano, che arrivò con uno dei suoi figli, lasciò mance da mille dollari alle cameriere e dimenticò una pistola sotto il cuscino. E poi Olof Palme, in quegli anni presidente del Partito Socialdemocratico svedese oltre che primo ministro, il mitico Orson Welles, e un incalcolabile numero di ricchi e più o meno famosi imprenditori e politici occidentali goderecci e senza pregiudizi.


Nel 1972, l’inaugurazione con la prima di una serie di feste sontuose e disinibite, e una rapida popolarità, tra esclusivi concerti di rockstar britanniche e statunitensi e chef di fama.  Si trova ancora in rete qualche immagine d’epoca: colori Anni ’60, costumi allora audaci, sorrisi e tanti fiori. Ma il declino fu più rapido della costruzione: l’hotel rimase nel pieno della sua attività soltanto un anno. Nel 1973, l’Haludovo fallì. Vivacchiò ancora una ventina d’anni circa, senza riuscire mai a risollevarsi economicamente. Tra i tanti motivi del suo rapido naufragio molti fattori, anche legati all’epoca e al contesto. I clienti erano e potevano essere solo stranieri, e per di più di un certo livello; a un jugoslavo medio del tempo a cui la legge jugoslava, ispirata ai principi del socialismo, vietava di giocare d’azzardo nei casinò, era vietato l’accesso a questo giocattolo per ricchi. Inoltre, trovare personale, soprattutto belle ragazze in abiti succinti, non era così semplice in un ambiente provinciale e semi rurale. E naturalmente, i costi, tirannia di ogni libera impresa, che nemmeno la gestione ibrida riuscì ad addomesticare.

Il resto è una storia triste e priva di ogni glamour. Fino agli anni Ottanta, il cuore del complesso, il Palace Hotel, fu una struttura alberghiera di lusso per diventare in seguito, e fino al 1991, un albergo molto più a buon mercato. In quell’anno, con lo scoppio della guerra che scrisse la parola fine per l’utopia jugoslava, divenne rifugio per i profughi.

Nel 2002, quando anche gli ultimi “ospiti” lo abbandonarono, chiuse definitivamente i battenti. Da allora il complesso sopravvive, sempre più delabrè, tra sogni di ristrutturazione e realtà di degrado. L’ultimo suo pretendente è stato l’uomo d’affari armeno-russo Ara Abramyan. Le ricerche in rete, accanto all’immancabile foto dell’imprenditore con Putin, raccontano che nel 2018 l’appena abbozzato progetto di risanamento e rilancio del complesso alberghiero si è infranto di fronte alla ferma obiezione dei residenti alla richiesta di chiudere all’accesso pubblico, con tanto di recinzione, una parte delle rive e del lungomare di Malinska.


Resta il progetto messo a punto dall’architetto Martina Gudac, che comprende la costruzione di sei alberghi di lusso per un investimento che andrebbe da un minimo di duecento a un massimo di trecento milioni di euro, comprendendo la realizzazione di un porticciolo turistico.


Resta la vista, spettacolare, che si gode dalle rovine di una struttura che costa forse più abbattere che ristrutturare.
E, per chi crede ai sogni, restano piccoli segnali di speranza. A un’estremità dell’enorme compound una fila di piccoli condomini sembra in ristrutturazione.