Testo di Michele Marziani

Foto di Michele Isman

Nell’aula del primo anno delle elementari, in una vecchia scuola dai soffitti alti, le finestre immense, i banchi di legno, il maestro uomo (che le maestre allora erano tutte donne), sui muri c’erano due carte geografiche: l’Italia fisica e l’Italia politica.
Poi c’erano altre cose appese: le lettere dell’alfabeto cui corrispondeva un disegno (A come ape, U come uva, eccetera), il crocifisso e la foto del presidente della Repubblica, se non ricordo male era Giuseppe Saragat. Il presidente aveva un volto simpatico ma non poteva certo competere con le due italie: una piena di montagne – comprese alcune altissime, nelle Alpi, dove le cime erano color ghiaccio perenne – pianure, laghi, corsi d’acqua e il mare tutto intorno; l’altra ricolma di confini, di regioni, di città e pure qui c’era il mare a circondare l’Italia ma non tutta l’acqua era di pertinenza nazionale, pure il mare aveva delle linee a segnarne il confine.

Per la prima volta lì, all’età di sei anni, ho vagamente compreso il significato e forse il valore della parola “politica”: non era la natura a segnare gli spartiacque, era il disegnatore.
Le due carte geografiche sono state il mio primo lasciapassare per il mondo, il luogo dove cercare le città che attraversavo col treno per andare a trovare i nonni, le zie, gli zii e qualche amico di famiglia. Grazie alle cartine appese al muro ho scoperto dov’era la città in cui vivevo allora – Rimini – e quanta strada ci volesse per Bologna, Ferrara, Padova, Gorizia. I luoghi delle mie prime geografie.
Da allora sono quasi sempre state le cartine, le piantine, gli atlanti, le mappe (anche quella dell’Isola del tesoro), la mia guida per il mondo: tutto quello che so lo riporto lì. Servono a me a capire qual è il punto del mondo dove mi trovo, a studiare le distanze che sono una cosa da sperimentare: mai e poi mai la prima volta andrei in un luogo con l’aereo o con altri mezzi supersonici. Capire la distanza è per me più importante di viaggiare. Assaporare lo sforzo, farsi carico della lontananza. Non dico andarci a piedi, ma almeno in treno. O in automobile, passando però per strade secondarie.

Fare proprio il mondo, non solo le cose che bisogna per forza vedere. Solo così qualcosa dell’abitare e degli abitanti, ti resta addosso e – temo – solo così si incarna la geografia. Ma la grandezza, lo stupore, della geografia, per fortuna sta anche, anzi, forse soprattutto, nell’astrazione, nel permettere di immaginare il mondo, i mondi, i pianeti, i continenti, i deserti, i paesi, le città, le catene montuose, le cordigliere, le colline, i pianori, i fiumi, i laghi, i mari, gli oceani, le isole, gli arcipelaghi, le steppe, i piccoli stati, le divisioni di paesi omogenei, l’omogeneità di paesi divisi, la distanza, la vicinanza, le lingue, le religioni, i conflitti, gli odori persino, le cucine, le abitudini, gli usi e i costumi… Tutto il brulicare del mondo si può narrare insegnandolo a scuola, andandolo a scoprire in profondità, additandolo lì, su una carta geografica, vista non come un anacronistico strumento superato dalle mappe interattive di Google ma come un tappeto volante sul quale si può viaggiare verso un mondo più bello, quello che si racconta, il mondo delle storie.

Perché viaggiare attraverso le mappe, indicando i luoghi, raccontando le vite, è un po’ come leggere narrativa, permette di vivere migliaia di esistenze diverse assieme alla propria. Stupirsi significa aver immaginato così forte da potersi ritrovare in un luogo identico all’immaginazione. Mi è capitato tante volte, senza esserci mai stato prima, di arrivare in un angolo di mondo che era proprio così, come l’avevo raccontato, come me l’avevano raccontato. Parlando, sognando, pure senza le figure. Ma non senza la cartina. Tornasole per l’avventura. Ecco, è uscita da sola la parola: avventura. Credo ci sia poco di più avventuroso della geografia. La possibilità di cavalcare il mondo, domarlo, domandargli di condurci a zonzo tra il sapere. Arricchire il pensiero di cose che fino a ieri non c’erano. Erano così lontane. Adesso le abbiamo in pugno. Non saprei dirlo in modo diverso se non aprendo la mano e lasciando volare via la piccola farfalla catturata nel primo giorno di scuola: le ali sono colorate, gli stessi colori delle due italie appese al muro della mia classe.