Una ‘Minuscola Orchestra Balcanica’, uno scrittore sfiorato da una granata, l’amicizia di Cosimo, la dolcezza perduta di Izet. E una giornalista non riesce a togliersi dal cuore uno spettacolo che, attraversando questa estate, ci ricorda il tempo delle guerre in Europa.

(A Villa Fondi, a Piano di Sorrento, il 24 giugno Erri De Luca e Cosimo Damiano assieme ai musicisti della Minuscola Orchestra Balcanica mettono nuovamente in scena ‘La rosa di Sarajevo’. Seguitene le repliche in questa estate)

Testo di Lorenza Pampaloni

A qualche giorno di distanza da una bella sera d’estate, mentre scendeva lentamente il buio tra i gradoni (scomodi) del Teatro romano di Fiesole, di fronte alla sagoma rosa-viola delle colline fiorentine, mi è venuto il desiderio spontaneo, improvviso, di buttare giù, quasi solo per me, qualche impressione, fissando un piccolo elenco di quello che mi è rimasto dentro, delle emozioni che mi ha suscitato questo pezzo per musica non solo balcanica ma mediterranea (chitarra classica di Giovanni Seneca e contrabbasso di Gabriele Pesaresi) e per voci,  quella avvolgente della cantante dell’ensemble Minuscola orchestra balcanica Anissa Gouizi (anche percussioni) e quella minimalista ma emozionante di Erri de Luca, affiancato dall’amico Cosimo Damiano Damato.

Innanzi tutto la definizione di “rose”, che non ha niente di botanico, ma allude alle tragiche impronte a raggiera che le tante granate lasciavano sul terreno a Sarajevo durante la guerra. Una di quelle guerre ‘che in Europa non ci sono, ma io sono incappato in ben tre’, come ha sottolineato ironicamente Erri, in questo che è un ricordo e un omaggio al fratello poeta e filosofo bosniaco Izet Sarailic, morto nel 2002. Che, a Sarajevo, accoglieva Erri, autista volontario dei convogli umanitari, all’uscita di quello che era un tunnel-buco di accesso, con le parole: ‘Benvenuto nel più grande carcere d’Europa’.

Tante le citazioni dalle lettere a Erri e dalle poesie di Izet, spesso diventate canzoni, con il racconto delle serate di letture poetiche a lume di candela, dove la gente si portava le sedie in uno scantinato, nonostante le bombe,  ‘turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo’, ‘poesie che riuscivano a sospendere l’assedio, a tenere la guerra fuori da quella cantina’. E l’amore immenso per la moglie, morta subito dopo la guerra: ‘tante donne e nessuna tu, a Sarajevo 200.000 donne e nessuna tu, in Europa 200 milioni di donne e nessuna tu, nel mondo miliardi donne e nessuna tu. E allora vieni, vieni, passeggiamo in questa poesia’.


E la lotta per sopravvivere al freddo degli inverni di guerra, bruciando sistematicamente la sua amata biblioteca. Nel primo anno aveva bruciato i saggi, lasciando per ultimo il prediletto Montaigne, nel secondo inverno tutti i romanzi separandosi solo alla fine dai Racconti di Kolyma di Varlam Salamov, ‘uno che di resistenza se ne intendeva dopo vent’anni in un gulag siberiano’, nel terzo inverno il teatro, ultimo falò a malincuore l’amato Cechov. E poi sarebbe stata la volta della poesia, ma nel frattempo la guerra era finita, e così quello scaffale si è salvato. A testimoniare il valore della poesia che in guerra è la più  urgente.


La voce narrante di Erri attinge anche alle proprie lettere scritte all’amico Izet Sarajlic: il dolore per la distruzione del ponte di Mostar, la raccolta del frammento di un fregio della bellissima biblioteca di Sarajevo e della scheggia di granata che, praticamente sfiorandolo dopo il sibilo con cui si annunciava, si era conficcata nel muro del cortile dove Erri si trovava e che ha poi estratto scottandosi. E ha portato con sé. Altri cimeli della storia del novecento si sono poi aggiunti, come il bullone arrugginito trovato lungo i binari di Auschwitz-Birkenau. Contesto che lo ha poi spinto a studiare lo yiddish, ‘una lingua che non ha nemmeno potuto difendersi. Nel tribunale di Norimberga era ammesso solo il russo’. Yiddish che de Luca ha studiato oltre all’ebraico e persino al russo. Tanto da  leggere con testo a fronte Pushkin: ‘dove siete, piedini piedini?’.


Ma il pensiero torna a Izet, ai suoi bei capelli bianchi e al suo sorriso di uno che prendeva un po’ in giro il mondo, ‘il più bel verso che la città di Sarajevo abbia scritto sulla faccia di un uomo’. ‘Perché le città scrivono, sopra se stesse e sulle facce dei cittadini. E da te voleva i versi di uno che non si è fatto sradicare dal campo, voleva i versi dell’assedio, concime per i fiori di gennaio. Perché  il mandorlo sei tu, Izet’.