Con questo romanzo d’esordio Perché i cavalli corrono? (Carbonio Editore) – vincitore del MUD Literacy Prize 2025 e finalista ai NSW Literary Awards – Cameron Stewart ci conduce in giro per la sua Australia.

Testo e Foto di Valeria Cipolat

Da tre anni Ingvar (“Dubito che un nome come ‘Ingvar’ sia mai stato pronunciato tra queste mura prima di oggi”) ha scelto la solitudine  come unica compagna di viaggio, compiendo un cammino apparentemente senza meta. Evita accuratamente qualsiasi contatto umano, se non quello strettamente necessario per approvvigionarsi di cibo, quando non lo trova sul suo cammino.

Si percepisce che qualcosa di terribile è accaduto per far sì che un uomo che sa tutto di botanica e ornitologia, si sia messo in viaggio nella parte più selvaggia dell’Australia.

Comprendiamo subito il tormento dell’uomo: è attratto dalla Rhizanthella slateri, un fiore della famiglia delle orchidee che cresce e fiorisce senza mai emergere dalla terra. Ingvar la ama perché, come lui, non ha radici .

Quando si avvicina troppo ai centri abitati è terrorizzato dalle immagini di vita comune: portare a spasso il cane, fare la spesa. Ma le immagini che lo spaventano di più sono quelle che vede fuori dalle scuole, quando figli e genitori si salutano prima di separarsi, ”ignari del fatto che stanno remando verso una cascata letale.”

Un moderno Forrest Gump, verrebbe da dire; ma a differenza del corridore che creava sciami di adepti che si univano a lui, Ingvar non vuole attirare le persone, anzi: “Prosegui dritto e nessuno ti noterà”, ripete a se stesso, in prossimità dei centri abitati. Vorrebbe avere il dono dell’invisibilità. Da tre anni non parla con nessuno. Per comunicare con le persone, scrive su un taccuino, che porta sempre con sé e nel quale annota ogni giorno dei pensieri.

La narrazione posta su più piani, sapientemente tradotta da Barbara Ronca, permette al lettore d’immergersi nella storia coinvolgendolo completamente.

Attraverso lo sguardo di Ingvar, Stewart ci conduce in un mondo fantastico ma primordiale che attraversa quasi come un automa. Riesce a chiudere gli occhi solo dopo aver messo in ordine cronologico tutti i nomi delle piante e degli alberi che ha incontrato quel giorno sul suo cammino. Ma quando si sveglia – spesso di notte – continua a camminare, come se fermarsi significasse aprire una diga di ricordi ed emozioni che potrebbero travolgerlo.

Un giorno, arrivando in una valle, si rende conto di aver percorso molta strada, è molto stanco e decide di fermarsi proprio lì. Ha adocchiato un vecchio capanno e chiede alla proprietaria, Hilda, il permesso di fermarsi lì per qualche giorno. L’anziana vedova manda avanti la proprietà occupandosi delle mandrie lasciatele dal marito, con il quale continua a dialogare e inveire.

I due stabiliranno un legame che può nascere solo tra persone che si comprendono specchiandosi (e riconoscendosi) nella sofferenza dell’altro.

Il paese vicino pullula di personaggi singolari con i quali, riluttante, Ingvar dovrà bene o male interagire. “Sembra un fantasma” commenta uno di questi incrociandolo sotto la pioggia, mentre percorre in auto la strada in senso opposto. “Forse lo è”, gli fa eco il suo compare.

La sua è una espiazione auto-imposta e fino a quando non l’avrà compiuta, non potrà tornare. Riuscirà ad affrontare i demoni del suo passato e ritrovare la strada di casa?

Mi chiedi dove sono? Sono molto cambiato. Ma sono ancora qui. Ci sto provando.”