Testo di Marco Turini. 

Il logo ufficiale del Congresso

Ottobre 2012, Firenze. Primo congresso di “Archeologia Pubblica” in Italia. Ma che cos’è innanzitutto l’ “Archeologia Pubblica”? Esiste per caso un’archeologia “privata”?    A quanto pare la volontà di creare un’archeologia al servizio della comunità in senso civico, politico e sociale è un’idea relativamente recente. Una mentalità innovativa anche se “vecchia” di qualche decennio. La Public Archaeology, intesa come disciplina accademica, è nata a Londra negli anni ’80 alla University College London grazie a Peter Ucko, uno dei primi archeologi a fare dell’archeologia una questione politica e sociale. Oltre a difendere in più occasioni i diritti delle popolazioni indigene quest’archeologo così “controverso” arrivò persino ad escludere dal primo congresso mondiale di archeologia i colleghi del Sudafrica come protesta contro l’Apartheid ancora in corso in quel paese.

Peter Ucko. (da http://gipri.wordpress.com/2007/08/28/peter-ucko/)

Peter Ucko, direttore dell’Institute of Archaeology e successore dell’eccentrico Mortimeer Wheeler che conquistò il pubblico per i suoi metodi non convenzionali ed i suoi “programmi educativi” nella televisione britannica alla fine degli anni ’40. Wheeler fu preceduto a sua volta da Gordon Childe definito con preoccupazione dai suoi colleghi rivali il “filo-sovietico” o più semplicemente “marxista”. Quest’ultimo fu fra i primi accademici a schierarsi apertamente conto il nazismo ed a contrapporre il concetto di “cultura” a quello di “razza”.

Poiché l’archeologia non è mai solo studio di antichi reperti ma è anche politica, economia, identità sociale.  E anche di questi argomenti si è parlato nei due giorni di convegno a Palazzo Vecchio a Firenze organizzato da due giovanissimi curatori, Chiara Bonacchi (UCL) e Michele Nucciotti, (Università di Firenze). Parafrasando il sito dedicato all’evento, il congresso nasce dalla necessità di verificare e certificare il contributo che l’archeologia può fornire al miglioramento delle condizioni di vita in campo sociale, economico e culturale. Si resta infatti sorpresi di come la cultura archeologica si faccia spazio nel vissuto di tanti cittadini, ovvero di quanto l’archeologia sia oggi un fatto “naturalmente” pubblico.

L’archeologia è quindi “pubblica”, non perché viene pubblicata su riviste specializzate o messa in mostra nei musei ma perché per definizione essa appartiene alla comunità, la racconta, l’arricchisce e la valorizza. L’archeologia è considerata “naturalmente pubblica”, ma non sempre questa materia è considerata veramente accessibile dalla comunità che la sostiene e ne attende i risultati.  Spesso l’archeologia è vista (grazie anche alla cecità di alcune soprintendenze e alla scarsa capacità di comunicazione di molti archeologi) una materia destinata ad un elite culturale ed accademica. Un’occupazione riservata a ricercatori intenti a lunghe e costose ricerche che spesso non vedranno mai la luce o che non verranno “tradotte” ad un pubblico non preparato a decifrare le dotte elucubrazioni dei professionisti del settore. Un pubblico che tende ad allontanarsi sempre di più da una materia considerata forse “noiosa”, non attuale, non comprensibile. Una materia, l’archeologia,  vista da molti politici come un impiccio economico al Progresso, alla vita reale. “Roba da archeologi” appunto. Trapassato remoto, polvere dimenticata nei magazzini delle istituzioni culturali. A volte materia di spunto per fantasiosi romanzieri e sedicenti presentatori tv senza alcuna preparazione per rocambolesche interpretazioni del passato. Versioni distorte e volutamente accattivanti della storia che rischiano di essere le uniche informazioni digerite dalla comunità.

Ma il Congresso è stato anche una denuncia se vogliamo a queste tendenze, è stata una proposta anche concreta al crollo fisico, “morale” ed economico dei Beni Culturali. Con questo Congresso si è voluto rispondere anche al fuoco incrociato della inadeguatezza legislativa che riguarda il demanio storico ed ai tagli importanti che il governo applica ormai ogni anno proponendo alternative, modifiche ed iniziative. Ci sono stati alcuni interventi encomiabili come quello di Giovanni Maria Flick già Presidente della Corte Costituzionale che auspicava non in un’economia di cultura ma in un’Economia della cultura aprendo la questione su come i Beni Culturali possano e debbano essere considerati non solo come una forma di profitto ma anche un volano per il Terzo Settore, l’impresa sociale ed il volontariato.

Sulla possibilità invece di valutare la cultura come una possibile e concorrenziale fonte di reddito per le istituzioni dedicate e per tutta la comunità è di avviso il dott. Paul Burtenshaw (University College London). “We can bank the Culture”. E probabilmente questo brillante dottorando inglese ha ragione visto che la maggior parte dei Musei Londinesi riescono ad autogestirsi con iniziative strategiche volte all’autosostentamento e all’indipendenza economica, tanto da premettersi di investire continuamente in nuovi progetti, nuove professionalità e nell’innovazione tecnologica. Esempi di lungimiranza nostrani sono stato forniti con l’intervento di Paolo Giulierini direttore “illuminato” del Museo di Cortona che ha reso un museo “extra-urbano” naturalmente al di fuori dei grandi circuiti turistici cittadini toscani (Firenze, Siena, Pisa) un esempio di rivoluzione museologica non solo nell’allestimento, ma di grande “internazionalismo”. Incoraggiando i rapporti del Museo di Cortona con grandi musei europei come il Louvre ed il British Museum, detentori ormai da svariati lustri di preziosi tesori nostrani, e sviluppando abilmente una rete di contatti e servizi sul territorio si è riusciti ad attirare una cospicua fetta del turismo toscano. Sulla scia della funzione che le istituzioni culturali giocano nel territorio a livello dell’identità sociale si è proposto quindi un avvicinamento della comunità a queste tematiche attraverso strategie molto diverse.

Secondo Lidia Decandia (Università di Sassari) le istituzioni stanno perdendo infatti l’abitudine a “comunicare” con il territorio. C’è chi è convinto invece che solo pubblicando tutti i dati (anche in formato esclusivamente digitale) dei risultati degli scavi archeologici su grandi database liberamente accessibili dagli utenti (con la consapevolezza di proteggere i diritti di “paternità” di chi li raccoglie) si possa arrivare ad una forma più partecipativa del cosiddetto pubblico. Altri invece come Valerio Massimo Manfredi (La7), archeologo di formazione e (competente) comunicatore di professione invocano il cosiddetto principio del “compromesso” fra dato scientifico e cosiddetta divulgazione (o meglio, condivisione) della ricerca archeologica per il beneficio di un pubblico non ancora preparato a decifrare il complesso gergo di accademici e ricercatori.  Manfredi è diventato un “uomo di spettacolo”, “colpevole” all’occhio dei colleghi solo per via della suo approccio “mediatico” all’archeologia e della sua partecipazione alla realizzazione di documentari destinati al grande pubblico. E chissà che qualcuno nella sala non abbia considerato “blasfemo” il video sulla cosiddetta “realtà aumentata” (una ricostruzione tridimensionale molto simile ad un “ologramma” se pur virtuale) e sulle ricostruzioni digitali molto sostenibili proposte da Marco Valenti (Università di Siena). Interessantissime le proposte di allestimento suggerite da Marinella Pasquinucci nel campo dell’archeologia subacquea e navale, senza contare le proposte di valorizzazione territoriale proposte da Silvia Guideri per i Parchi della Val di Cornia dove esistono importantissimi musei a “cielo aperto”, ma talvolta esclusi dagli ordinari percorsi del cosiddetto turismo culturale.

Da citare la lucida e a tratti drammatica sintesi effettuata da Daniele Manacorda, uno dei più grandi archeologi viventi, sullo “stato dell’arte” dell’archeologia. Manacorda propone anche un antidoto a questa crisi nel settore: la Creatività. In campo professionale ed accademico.  I nuovi archeologi non possono più permettersi il lusso di restare il museo di se stessi. Devono rinnovarsi. E non necessariamente abbracciando le nuove tecnologie, ma nella loro mentalità.

Fra tante proposte per il futuro c’è anche chi ha suggerito di investire in un’ulteriore formazione degli archeologi con corsi ancora più professionalizzanti che permettano di rendere i neolaureati più “competitivi” sul mercato. A mio giudizio sarebbe più auspicabile risolvere prima il problema delle migliaia di archeologi che dopo svariati masters, specializzazioni post-laurea e dottorati di ricerca non trovano ancora uno sbocco professionale nella proprio settore (e probabilmente neanche in altri). Considerando anche che queste attività formative rischiano, alla luce della crisi economica diffusa, di dare lavoro solo a chi le propone.

Qualche altro relatore ha presentato invece i risultati dei propri progetti come ad un qualsiasi altro appuntamento di settore forse dimenticandosi del tema centrale del convegno, ovvero la necessità di avvicinare il cosiddetto “pubblico” e di proporre qualche soluzione concreta all’emorragia costante di visitatori nei musei e siti archeologici.  L’archeologo di oggi infatti non riesce ancora in generale ad uscire dal proprio “egocentrismo” professionale che lo rendono così inviso alle nuove generazioni di utenti, sempre più esigenti e dalla ormai scarsa pazienza nei tempi e nelle modalità di apprendimento.

Ironia della sorte, al primi congresso di “Archeologia Pubblica”, il pubblico è stato infatti il “grande assente”. Ho domandato con un filo provocatorio chi fra i presenti non fosse “un collega” o non avesse un interesse diretto od indiretto negli argomenti trattati. Forse, per citare Ellen McAdam, gli archeologi stanno ancora solo “talking to theirselves”. Purtroppo il pubblico “vero” non c’era ma questo non è certo imputabile agli organizzatori del convegno che invece stanno cercando di cambiare una consuetudine, di sconfiggere quella generale “resistenza passiva” ad una materia ancora troppo lontana dalla comunità. Forse questo primo convegno di Archeologia Pubblica è stato anche un piccolo esame di coscienza fra gli esperti del settore.

A me piace pensare che in questi due giorni sia stata tesa una mano verso la comunità per un nuovo incontro fra due mondi ancora troppo distanti. Credo siano state gettate basi importanti per attuare una “rivoluzione copernicana” del rapporto tra il pubblico e l’archeologia che veda l’individuo, inteso nella sua accezione più comunitaria e sociale, più partecipe e protagonista nei processi di conoscenza e non un mero “contenitore” passivo dei risultati della Ricerca. L’Archeologia diventa “Pubblica” solo quando è condivisa, compresa e sostenuta da Tutti.

www.archeopubblica2012.it

Giovanni Maria Flick durante il suo intervento