Testo e foto di Laura Lenci

Mentre torno in aereo dalla Sicilia, appena alcuni giorni prima dei roghi che la devastano, guardo dal finestrino. Il cielo è terso. Non è sempre così. Provo a fare delle foto, poi le devo scartare inevitabilmente perché sono troppo sfocate. Mentre sorvolo l’Emilia Romagna e mi avvicino al Veneto, mi accorgo che lo spazio sotto di me è molto più simile a quello descritto da Eugenio Turri e compianto da Andrea Zanzotto in una intervista rilasciata a Marzio Breda nel 2009.

È sotto gli occhi di tutti, è sotto anche i miei occhi oggi più che mai: lo spazio antropico si espande, deforma e divora suolo, ingoia. A cucchiaiate di cemento, asfalto e catrame. Si contorna di rotatorie, cavalcavia, parcheggi, capannoni  e del miracolo economico, di miracoloso è rimasto davvero gran poco. Alle mie osservazioni dall’alto si aggiunge che vengo da una conferenza dove ho parlato di ecopedagogia, del nostro tempo e di quello del pianeta che sta per scadere, di cosa possiamo fare in classe.

            A casa mi riprendo e poiché è estate è anche il momento di dedicarsi alle letture arretrate. Quelle che si desiderano fare ma non c’è mai tempo durante l’anno, quelle che si accumulano su tavoli, mensole, divani, comodini in pile pericolanti. Alcune riescono a superare la stagione, altre devono attenderne più d’una. A cosa mi posso dedicare quest’anno? L’anno scorso è stata la volta di un classicone americano, quest’anno mi dirigo decisa nella libreria dei miei figli ed estraggo un libro che loro hanno categoricamente snobbato perché è grosso, perché ha le figure, perché è un classico.

            Ed ecco che di nuovo mi ritrovo per aria, non più sul sedile di un aeroplano, ma sul dorso di un papero bianco che vuol dimostrare che anche le oche domestiche possono volare come quelle selvatiche. Insieme a me, un piccoletto con gli zoccoli, i calzoni di pelle gialla e un berrettino a punta. Un ragazzetto impertinente, almeno all’inizio, dispettoso e annoiato dalla scuola e dalla vita. Ignorante, diremmo noi, perché davvero non sa proprio niente, niente di niente della Svezia, di casa sua, di ciò che lo circonda.

            È Il meraviglioso viaggio di Nils Holgersson. Mi ha stregata. Chi l’avrebbe mai detto, un libro del 1906! Ma non è tanto il viaggio, le avventure, i personaggi umani e animali che si incontrano quello che mi ha ammaliata, bensì la scoperta e la sorpresa di trovare uno straordinario libro di geografia nascosto tra le pagine di un racconto magico, avvincente e scritto con una leggerezza di stile degna di menzione. Il libro si apre con un testo poetico: «La cartina della Svezia» di Carl Snoilsky che di parola in parola disegna regione per regione, territorio per territorio, paesaggio per paesaggio. Una mappa che è come una porta di accesso che si spalanca davanti a noi.

            E poiché, come me dall’aereo, la conoscenza avviene per Nils perlopiù osservando dall’alto, ecco che le regioni assomigliano a tante cose che ci sono care e familiari: al grembiule a righe della mamma quando sorvola un paesaggio segnato da fiumi e crinali, strade e ferrovie; a una grande tovaglia a riquadri, quando la pianura è fatta di campi e prati, strade e ferrovie; a un tessuto strappato, quando si aprono laghetti e insenature; o a una grande casa con gli abeti sul tetto e davanti ha una grande scalinata di tre gradini alti quando il terreno roccioso mostra la sua stratificazione geologica e così via per tutto il paese.

            E sono certa che aprire Google Earth sia una ottima scusa per viaggiare anche noi ed osservare il pianeta dall’alto. Anche noi, forse impareremmo come Nils Holgersson a essere meno dispettosi e arroganti nei confronti della nostra Terra, oikos, casa, tempio.