Testo e foto di Silvia Landi

Si chiama Elias, guida un grosso camion vuoto, da un piccolo villaggio nella regione di Ruvuma in Tanzania, fino alla capitale Dar es salaam. Le nostre strade si incrociano verso le undici di mattina di questa domenica, dopo che io ed il mio compagno di viaggio abbiamo passato il week end in un altro piccolo villaggio vicino Songea a trovare le nostre amiche e colleghe del servizio civile. Come sempre, pur chiedendo a chi è del posto, l’orario in cui passano gli autobus non è mai del tutto chiaro, mai una certezza. Sono circa sei ore per tornare a casa, a Nyololo, decidiamo che non abbiamo troppa fretta e che siamo disposti a prendere il primo autobus che passa nella direzione giusta. Il viaggio parte verso le dieci dalla casa delle nostre amiche, che lasciamo senza acqua corrente nella loro modesta dimora ai margini della foresta di Mahinya. Viaggiamo per una quarantina di minuti in tre su un piki piki, moto taxi, comunissimo mezzo di trasporto, fino all’incrocio più vicino con la strada asfaltata, dove passano tutti gli autobus. Scendiamo, paghiamo 7000 scellini (circa 3 euro) e ci guardiamo attorno trovando il primo venditore di patate dolci a cui chiedere notizie sugli autobus. Qua, tutti sanno tutto, o forse niente, tutti vendono quello che possiedono, che spesso poco più di niente. Sono le undici. A quanto dicono i nostri informatori, dovremmo aspettare un’ora per il prossimo mezzo. Mentre conversiamo col venditore di patate si inserisce nella conversazione, fino ad allora rigorosamente in swahili, quello che poco dopo scopriamo essere Elias, che con un inglese maccheronico e un po’ forzato ci propone di viaggiare con lui.
Ci guardiamo per un attimo e decidiamo di comune accordo di salire sull’altissimo camion, d’altra parte dopo quasi otto mesi era ora di sperimentare un altro mezzo di trasporto.
Ci presentiamo ad Elias che ricambia la cortesia, ed il viaggio inizia a bordo di un camion vecchiotto e scassato; noi sorridiamo e ci facciamo trasportare dall’euforia dell’avventura.

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Il camion arranca sulle salite con grossa pendenza e il rombo rauco del motore, che sembra lamentarsi ogni volta che l’autista poggia la mano sul pomello del cambio per scalare marcia, pare volerci accompagnare nella conversazione che si instaura tra noi tre interlocutori. Siamo curiosi, ci facciamo raccontare la sua storia. Elias è un masai, appartiene alla tribù, ma deve aver abbandonato gli usi e i costumi tradizionali da un pezzo, ne conserva però ancora la stazza. Arriva da Moshi (che letteralmente in swahili significa fumo), ai piedi del Monte Kilimanjiaro; ci racconta orgogliosamente di aver scalato la famigerata montagna come portantino diverse volte nei due anni in cui, in città ha lavorato per un’agenzia turistica. Ride con benevolenza, ricordando quanta fatica facevano nella salita, i bianchi che accompagnava nella scalata, ricordandoci quanto poco siamo abituati al quotidiano esercizio fisico.
Nelle sue vite passate, oltre il portantino e la guida turistica, ha fatto anche il guardiano, mlinzi nella loro lingua. Di guardiani la Tanzania è piena, l’ospedale li ha, il centro dei bambini orfani li ha, le case di chi se li puó permettere li hanno, le banche, i negozi con materiale costoso li hanno. Le porte sono un po approssimative, quindi in sostituzione ci sono i guardiani.
Elias guida i camion da quasi quattro anni e lavora per una compagnia di Dodoma. Guidare un camion credo sia uno dei rari modi in cui una persona con risorse economiche limitate, in questo paese, possa permettersi di viaggiare, di vedere qualcos’altro. Così ci racconta dei suoi viaggi in Zambia, Uganda, Congo, Rwanda, Kenya e Burundi. Ci spiega le differenze delle valute monetarie, ci racconta che al di la di Tanzania e Kenya in tutti gli altri paesi lo swahili è parlato da pochi, che ci sono paesi in cui si mangia benissimo, altri in cui la fame si vede ovunque, soprattutto lungo le strade. Gli chiediamo quale sia il posto dove è stato che gli è piaciuto di più, lui senza alcuna titubanza esclama: Kigali! É piccola comparata a Dar es Salaam, ma il Rwanda è un paese tutto piccolo, e poi è una città pulita, curata, ci si trova qualsiasi cosa si cerchi e sembra di stare in un altro mondo! Sorridiamo e pensiamo che forse ci piacerebbe vedere cosa c’é oltre il lungo confine tanzaniano, forse lo faremo, un’altra volta.
Elias ci racconta orgogliosamente, della sua famiglia, che abita a Moshi, moglie e tre bambini, che vede raramente a causa del suo lavoro. Qua è comune che la famiglia non abiti unita, é raro che, ammesso che lavorino entrambi, uomo e donna, lo facciano nello stesso posto; in tutto ciò i bambini restano rigorosamente con la madre.
Il camion continua ad andare, ci fermiamo per mangiare una zuppa di pollo e un chapati (piadina di origine indiana), e proseguiamo nella risalita degli altipiani del sud. Su un paio delle ultime salite, il camion arranca e si spegne, ma niente panico, Elias scende, infila le mani nel motore e si riparte, chissà se in qualche altra vita passata ha fatto anche il meccanico, probabilmente no, avrà imparato in quattro anni da camionista lungo le infinite distanze Africane, ad arrangiarsi.

Arriviamo a Makambako, ad un’oretta da casa, lui si ferma, per lavare il camion e riposare qualche ora, dopo aver guidato quasi quindici ore, lo aspetta ancora un sacco di strada fino a Dar es Salaam e la partenza è prevista per le tre di mattina.

Lo salutiamo, lo ringraziamo, gli paghiamo il prezzo previsto per la tratta (si tratta di carpooling, l’autostop non esiste) e scendiamo dal camion; la foto gliela chiediamo di corsa all’ultimo minuto, è evidente che voglia scappare a lavare l’automezzo prima che si faccia buio, d’altra parte la curiosità per l’altro è nostra, siamo noi quelli che hanno scelto l’insolito, per lui probabilmente è stato tutto kama kawaida, come sempre.

E allora safari njema Elias, buon viaggio anche a te.

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