Testo e foto di Carlotta Pianigiani 

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“Dammi un’altra garza”, mi dice suor Lourdes. Mi allungo sul tavolo e pesco con una pinza da un contenitore circolare, prendo un po’ di disinfettante e le passo il tutto. Stanotte a mezzanotte ho sentito arrivare un’ambulanza, dentro c’era una donna con una frattura al femore e una ferita enorme. Passiamo la mattinata a lavare questa donna in una vasca vicino alla stanza delle medicazioni. Ha tutta la gamba scollata fino a metà coscia, se alziamo un lembo freddo si vede la rotula. Il vero problema è che, dopo l’incidente stradale, le hanno messo un impasto di terra e foglie per bloccare l’emorragia. “E’ una buona candidata per l’amputazione”, penso mentre le tolgo tutti i frammenti con le pinze, poi laviamo con permanganato di sodio, Betadine, fisiologica e acqua ossigenata. Medichiamo con il miele per l’infezione e le facciamo il vaccino per il tetano. Sono a Bebedjia, nel Ciad del sud, sono qui da qualche giorno dopo aver passato una notte a N’Djamena.

Quando penso a l’Africa mi vengono in mente due cose: la polvere e le persone. C’è gente ovunque, negli aeroporti, nelle camere d’ospedale, per strada, nei villaggi. Arriviamo a N’Djamena che è tardi, ci infiliamo in una stanzetta soffocante dipinta di celeste. Qui è tutto color sabbia e azzurro, mi fa pensare al mare e alla spiaggia, mentre una poliziotta cicciuta mi prende le impronte digitali. Ci guardano tutti, un po’ per il colore della pelle, un po’ perché non capiamo sempre cosa ci chiedono. Usciamo in strada, ci aspetta Padre Joao, un prete portoghese. Non parlo la sua lingua ma ride sempre ed è simpatico. Con lui c’è Sabina, una rappresentante italiana di una onlus, venuta per fare incontri. Andiamo al Centre d’accueil Kabalai, scivolando veloce sull’asfalto. Passiamo davanti al palazzo presidenziale mentre dei militari armati fumano fuori dalle porte. Qualcuno dice che dobbiamo correre, perché se rallentiamo ci sparano. Noi italiani chiacchieriamo in un ostello gestito da suore congolesi, dicono che gli italiani vengono qui per fare missioni, gli altri gli affari. La mattina ci svegliamo presto perché il viaggio è lungo e dobbiamo arrivare prima che faccia buio. Ci avventuriamo per i 600 km che ci separano da Bebedjia e dall’ Hopital Saint Joseph, mentre tengo il naso incollato al finestrino per non perdermi niente. Il Ciad è come me lo immaginavo: capanne di fango con il tetto di paglia, recinzioni intrecciate, pompe costruite dall’Onu lungo la strada. Ci sono tettoie per il bestiame, camere d’aria per tirare su l’acqua dai pozzi, qualche maiale bianco e nero e cavalli magri. C’è gente che cammina nella terra, portando sterpaglie sulla testa, secchi d’acqua, bambini in braccio. La polvere si infila ovunque, nei vestiti, nelle valige, nel naso e negli occhi. Mi siedo nel bagagliaio, perché con noi c’è anche il vescovo e padre Martin che parla un po’ di Italiano. La strada asfaltata che porta a sud si interrompe e lascia spazio a un cumulo di buche, fossetti, sassi. Cerco senza riuscirci di non sbattere troppo a destra e a sinistra mentre la macchina si muove e le valige mi cascano addosso. Buchiamo una ruota in mezzo alla terra rossa. Buchiamo davanti a una capanna con molti bambini. Quelli più piccoli sono spaventati dal colore della nostra pelle, non si avvicinano e se ne stanno all’ombra. Ci guardano mentre ci stendiamo sotto la macchina, tra il cric e i bulloni. Ridono mentre cambiamo la ruota, gli regaliamo qualche mars. Arriviamo a Bebedjia ed entriamo nella concessione dove si trova l’ospedale. La nostra casa è recintata, ci sono 14 sentinelle che sorvegliano l’ospedale e che si proteggono con manganelli e couteau de jet, un’arma africana ricurva. Abbiamo camere singole e un sistema per purificare l’acqua con dei filtri porosi che la rimandano a un orcio che la tiene fresca. Facciamo un giro in ospedale. La cosa che mi è rimasta più impressa è l’odore. E’ qualcosa che sa di umanità e sudore, di pelle e fiato. Fuori dai reparti c’è uno spazio dedicato ai parenti, che cucinano e dormono in terra. Alcuni stanno nelle camere per sventolare i malati, altri fanno la brace per cuocere la cena. Non c’è privacy, sono tutti con tutti, in mezzo a tutti. Vediamo una ragazzina nomade, una bororo. Hanno tratti diversi, più fini, più belli. La nonna dorme in terra vicino al suo letto, parlano solo la loro lingua, nemmeno francese. Ha i capelli intrecciati e degli amuleti al collo. Mi dà la mano, ha partorito e si è spaccata tutta. L’hanno operata più volte, ma ancora deve guarire. I ciadiani sono un popolo orgoglioso, che non mostra niente, né dolore né felicità. Ed è una cosa che fa impressione perché non urlano quando li medichiamo, non fiatano quando puliamo le loro ferite. Stanno in silenzio, fanno un gesto strano, si grattano la gola ma non aprono la bocca.

Il giorno dopo andiamo al mercato, non posso scattare foto perché altrimenti mi arrestano. C’è gente dappertutto, fuori dalle capanne e dentro, ci sono panni stesi, bambini, donne che cucinano e uomini in cerchio. Il mercato è enorme, di stampo arabo. Vendono catini di plastica, cocacola, teiere. Ci sono donne che friggono arikò e che vendono arachidi. Ci sono mucchi di carcadè e di datteri. Camminiamo tra i banchi coperti da teli di plastica mentre i bambini ci guardano e vengono a darci la mano, una ragazza mi indica i piercing. Chiede se mi hanno fatto male. Dico di no e le sorrido. Ci sono cipolle, patate, pomodori e insalate, delle donne preparano i Buik, un impasto di cereali. Ci sono bambine accovacciate che versano nelle tazze latte cagliato di capra, alcune vendono palle di pane fritte. Ci sono stoffe colorate di cotone e di rayon. Un ragazzo se ne va in giro con una capra al guinzaglio. Camminiamo tra i negozi di batterie per i telefonini, di stoviglie, di camere d’aria per raccogliere l’acqua nei pozzi tradizionali. Arriviamo al mulino che funziona grazie a un grande motore a scoppio, lì accanto c’è un uomo che vende del thè in teiere d’argento sbeccate.

Dopo andiamo al fiume, dove c’è un accampamento nomade Bororo. Scendiamo gli argini che durante la stagione delle piogge si riempiono. Adesso c’è poca acqua, mentre dei bambini ci corrono incontro. Sono tanti e quando diamo le caramelle chiamano anche gli altri. Mi vengono tutti intorno, tendono le mani, si incastrano l’uno con l’altro per averne di più. Inizio a fare foto, giocano davanti all’obbiettivo, si mettono in posa, lo coprono con le mani e poi vogliono vedersi. Mi indicano i capelli e gli orecchini. Un po’ più in là c’è una ragazza più grande che prende l’acqua dal fiume scavando un buco nella sabbia. La filtrano così, tra i sassolini e le rocce. Le loro capanne sono circolari, usano giunchi e legni per fare le mura e i tetti. Poi le ricoprono con dei teli neri di plastica. Allevano bestiame, infatti una mandria, pascola pigra non lontano da lì.

Dicono che nelle situazioni di guerra, come in quelle di estrema povertà la responsabilità sia duplice. Dicono che la colpa è di chi crea il conflitto, di chi partecipa, ma anche di chi non aiuta. Abbiamo da un lato vittima e malfattore e dall’altro chi si ferma a dare una mano e chi passa oltre. Dovremmo aiutarli, si, dovremmo fare in modo che la vita non sia più un regalo.

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immagine bioCarlotta Pianigiani, 22 anni, neo infermiera di Arezzo.

Scrivere è la cosa che sa fare meglio. Scrive in ogni pezzetto di quaderno, nel computer, mentre aspetta qualcuno, tra una lezione e l’altra. Ci incanala gioie e dolori, urla e risate, scrive per buttare la sua rabbia sul foglio, per eliminare i fantasmi delle sue notti, per fare chiarezza su ciò che popola la sua testa. Scrive, viaggiando perché ogni viaggio rimane dentro, graffia l’anima e regala una boccata d’ossigeno contro le nuvole invernali.