Memoriale dal convento

Roberto ha deciso che ora è il suo tempo per imparare l’arabo. Ad Alessandria d’Egitto. Un mese di corsi. Ha scelto di chiedere ospitalità ai frati francescani del convento di Santa Caterina. Ecco la cronaca dei suoi primi giorni. Gli incontri con Michel, Bachir e Botros. E la pizza Margherita. Con una strana, inquietante sorpresa, nell’abside della chiesa…

Testo e foto di Roberto De Meo

Il corridoio del Convento

Il taxi gira a vuoto nel centro di Alessandria, ancora immersa nel sonnacchioso mattino di un sabato del Ramadan. Poi si ferma davanti al portale chiuso di una chiesa ortodossa. “È qui”, mi dice in inglese. “Non è possibile”, insisto, “è una chiesa cattolica, un convento…”. Riparte e, con l’aiuto di Google Maps, arriviamo di fronte a un grande cancello aperto presidiato da alcuni soldati dall’aspetto rilassato e amichevole. Chiedo al taxi di entrare nel lungo viale fino al piazzale della chiesa e del convento dei francescani di Santa Caterina di Alessandria.

Mi viene incontro Michel, il direttore del convento, e mi accoglie festoso in perfetto italiano. È un siriano, venuto via molti anni fa dal suo paese. Barba curata in stile alpino, veste in maniera elegante casual. In tutto il mese che sono rimasto non ho mai trovato il modo di farmi raccontare la sua storia, mi ha sempre trattenuto il ritegno di entrare all’interno di vite dolorose.

Mi affida a Bachir, il factotum, l’uomo che sbriga tutti gli affari materiali e si occupa degli ospiti che alloggiano nel convento. Il primo piano è occupato da sette frati francescani, il secondo dalle camere per gli esterni paganti. Iniziamo a dialogare in una lingua fatta dai rudimenti del mio arabo e da quelli del suo inglese. Bachir insiste nel portarmi il bagaglio, confidando nella prima di una lunga serie di mance che avrebbe ricevuto per gli innumerevoli aiuti e favori fatti nel mese della mia permanenza.

La stanza di Roberto

Si percorre un lungo corridoio deserto, ampio e dai soffitti alti, senza mobilio ma arredato esclusivamente con poche immagini sacre, statue o dipinti, tutti moderni e senza alcun valore artistico. Mi trasmettono una lieve inquietudine. Prendiamo un ascensore che muovendosi fa la musica di un carillon, anche questo ha qualcosa di surreale e inquietante. Secondo piano: un altro grande corridoio, spoglio, su cui si affacciano le camere, i bagni comuni, la lavanderia e la cucina per la colazione. Entro nella mia stanza, enorme, a tre letti di cui sono l’unico occupante. Niente alle pareti, un tavolino per scrivere, un armadietto, un frigo, bagno privato parecchio scassato, una finestra affacciata sul giardino del convento. Affiorano sensazioni di tanti anni prima , del servizio civile nella colonia estiva di un ente religioso. Qui il tempo sembra essersi fermato agli anni Cinquanta, incurante degli sconvolgimenti avvenuti oltre il cancello.

Bachir mi lascia, dandomi appuntamento per la colazione, il mattino dopo alle 8.00. Cerco di sistemare le mie cose, organizzando una routine che mi accompagnerà per tutto il periodo. Un giorno o due e già per me questa stanza sarà casa. Poi esco, vagabondando per il convento senza incontrare anima viva, vado sul piazzale della chiesa, ancora chiusa.

Decido di avventurarmi fuori, per le strade di Alessandria. Pochi minuti e sono davanti al portone della scuola di arabo che frequenterò dall’indomani. Poi, due passi, e arrivo alla corniche. Rimango senza fiato di fronte a una luce mediterranea e familiare, che mi avvolge e mi fa sentire non più straniero. Il lungomare si sta affollando di famiglie festose che preparano l’iftar, il pasto serale, in cui finalmente si può rompere il digiuno del Ramadan. Mi piacerebbe unirmi a loro.

Il club

Rientro e decido di cenare al “club”, la sala ricreativa di fronte alla chiesa, sempre all’interno della struttura recintata e sorvegliata del convento. Entro e pago la quota di 50 sterline egiziane (poco meno di un euro) per essere ammesso. Atmosfera parrocchiale d’altri tempi. A un tavolo siede un gruppo di uomini, sono tutti cattolici, in qualche maniera collegati alla chiesa e all’Italia, tra loro parlano egiziano. Mi salutano abbastanza cordialmente, usando poche parole di italiano, poi riprendono a parlare tra loro, facendo vari giri di un whisky sbucato da una borsa in maniera clandestina. Il gusto forte di trasgredire alle regole della maggioranza. A un altro tavolo alcune donne conversano. Nella sala un ping pong, all’esterno un campetto di calcio dove giocano alcuni ragazzini.

La pizza ‘Margherita’ e la birra Stella

Per altre 50 sterline si può avere una birra Stella, la marca locale, difficile da trovare in questo periodo, e per altre 50 la cuoca mi propone una pizza Margherita, sostanzialmente l’unico piatto accettabile. Arriva una pizza stracolma di ingredienti, sottaceti e altro, che non mi piace. Allora le spiego come fare la “vera” Margherita, solo pomodoro e mozzarella, aggiungendo un po’ di za’tar, la miscela di spezie mediorientali composta di origano, timo e maggiorana per cui vado pazzo. Le sere successive, quando tornerò per la cena, la “mia” Margherita sarà il piatto fisso, facendo felice anche la cuoca per questa nuova ricetta. Seguiterò a cenare saltuariamente al club, da solo al mio tavolo, senza mai ricevere più di un saluto o un invito. Meglio l’atmosfera confusionaria e avvolgente dei ristoranti cittadini.

Domenica mattina. Mi presento nella sala della colazione un po’ agitato per il primo giorno di scuola. Ci sono anche altri ospiti, egiziani da altre città. Bachir mi stava aspettando, mi insegna a preparare il Nescafè e mi porta la colazione: una scodella colma di minestra di fave, calda e densa, da mangiare con l’aish baladi, la tipica pita egiziana; un pomodoro tondo tipo pallina da golf, un uovo sodo, un formaggino incartato e un biscotto. Mangio tutto, fuorché il pomodoro, perché ho deciso di evitare le verdure crude lavate con acqua non sicura. La minestra fatico a finirla, ma mi sforzo, sperando in qualcosa di diverso per il giorno dopo. Invece lunedì, e per tutti i trenta giorni seguenti, la colazione sarà sempre assolutamente identica, nessuna variazione neppur minima. A scuola mi spiegano che il ful, questa minestra di fave, è un piatto leggero, nutriente, facilmente digeribile, che non mette sete e dà energie per tutta la giornata. Decido che bisogna seguire le abitudini alimentari consolidate e mangerò ogni mattina il mio piatto di ful. Gli ultimi giorni la prendevo anche due volte e, tornato in Italia, per qualche tempo mi è mancata…

Santa Sabina

Domenica pomeriggio, rientro da scuola un po’ frastornato dopo cinque ore di lezione. Il portone della chiesa è aperto per la messa serale appena terminata. Entro, trovo il parroco, uno dei francescani del convento, padre Botros, egiziano che ha studiato in Italia e parla in buon italiano. Mi racconta che la chiesa è stata costruita nel 1847, ma la facciata venne rifatta a metà degli anni Venti, in stile barocco romano, dall’architetto napoletano Mario Avena. In sacrestia mi mostra i registri parrocchiali dei battesimi risalenti fino alla metà dell’Ottocento. È un uomo attivo, moderno, veste in borghese, fa lo psicologo alla scuola italiana dei Salesiani ed è un po’ infastidito da questo interesse verso un passato che lo riguarda poco.

Girello un po’ per la chiesa, entro nella cappella dove si conserva il corpo (o forse una statua?) di Santa Sabina. La teca è piena di biglietti, fotografie, con suppliche e preghiere, evidentemente per le virtù taumaturgiche attribuite alla santa. Ci sono anche piccole targhette con i ringraziamenti per i voti esauditi. È il trionfo del kitsch. La chiesa è parecchio délabré, lungo le navate ci sono altari dedicati ai santi maggiori con immagini di nessun valore.

La bandiera sabauda nell’abside della chiesa di Santa Caterina, ad Alessandria

Un po’ deluso vado verso l’uscita e incontro di nuovo padre Botros. “Hai visto, qui avevamo il vostro re?”, mi dice con un sorrisetto e mi accompagna dietro l’altare dove mi mostra un ritratto di Vittorio Emanuele III. “Non è il mio re”, gli dico, “io sono repubblicano e lui ha tradito l’Italia”. Un altro sorrisetto e si allontana dicendo “Già, molti Italiani non sono contenti di questo…”. Resto da solo dietro l’altare maggiore di fronte a una lapide con il nome del re, che -morto in esilio ad Alessandria – qui era rimasto sepolto dal 1947 al 2017. Due ritratti, il re e la consorte, ormai invecchiati dal tempo trascorso. Accanto, una bandiera tricolore, ma è quella con lo stemma di casa Savoia. Mi fermo a leggere un lungo pannello intitolato al “Re soldato” dove tutto il regno di Vittorio Emanuele, dalla salita al trono al disastro bellico, viene riletto in chiave apologetica e assolutoria: non si nomina la firma delle leggi razziali e a lui viene attribuito il merito se “il Regime non diventò mai una dittatura totalitaria”. Rimango incredulo e disgustato, stupefatto quando leggo che il pannello è stato messo pochi anni fa, nel 2011, per le celebrazioni del 150º anniversario dell’Unità d’Italia, dall’Associazione Nazionale Pro Italiani d’Egitto. Completa l’allestimento un gagliardetto del Gruppo Croce Bianca di Torino.

Vado fuori sul piazzale, turbato, non credevo si potesse avere una visione così diversa (e distorta) dei fatti storici. Per un po’ dimentico l’Egitto, torno con la memoria ai racconti di famiglia, l’uccisione dei fratelli Rosselli, le persecuzioni agli ebrei, la lotta partigiana, la battaglia per la liberazione di Firenze…

Poi esco, ed è sera, da poco è cominciato l’iftar, e Alessandria, città giovane e viva nel presente, mi accoglie e mi stordisce con le sue luci e i suoi suoni di festa.