Testo e foto di Daniela Pergreffi

Mai come nel contesto storico attuale, in cui la globalizzazione non è più una tendenza ma un dato di fatto, è sempre più diffusa e sentita l’esigenza di raccontare quel che resta dell’identità dei luoghi attraverso uno sguardo forse meno oggettivo e ufficiale, ma più intenso e penetrante. Si moltiplicano le iniziative volte a questo obiettivo. Una delle più significative è il progetto del collettivo “La luna al guinzaglio”, che fa capo al Museo MOON di Potenza, che prevede la produzione degli “Atlanti Babelici”. Sono libri senza parole, interamente realizzati a mano in forma di leporello, con materiale di recupero raccolto in luoghi spesso dimenticati. Il loro scopo è raccontare le città attraverso i materiali rifiutati, partendo dalle tracce lasciate inconsapevolmente da chi i luoghi li vive e li trasforma.

Per questa prima fase del progetto, destinato a coinvolgere altre città e a dar vita ad una vera Biblioteca Errante, sono stati individuati quattro artisti operanti nelle città di Napoli, Palermo, Catanzaro e Bari, tutte località bagnate dal Mediterraneo, denominatore comune delle narrazioni. Altro elemento comune sono i tagli tematici: in ogni località ha preso così vita l’atlante del mare, della terra, dell’aria, del movimento e del corpo. Ultima, ma fondamentale indicazione progettuale prevista dal collettivo organizzatore, è la possibilità di realizzare laboratori e workshop che affianchino le esposizioni degli Atlanti, capaci di coinvolgere tanto il pubblico occasionale di visitatori, quanto studenti, formatori, insegnanti e artisti, attivando così un processo moltiplicatore di esperienze creative, ma soprattutto di riflessioni e discussioni interdisciplinari.

Chi scrive ha realizzato i cinque Atlanti Babelici della città di Napoli, esposti nel Museo Duca di Martina di Villa Floridiana, sede in cui si sono anche svolti tre laboratori rivolti al pubblico della durata di circa tre ore l’uno. Pur cambiando il target dei partecipanti la struttura dei workshop è rimasta la stessa: visita alla mostra con narrazione del progetto, esposizione dei materiali di recupero da utilizzare su un lungo tavolo da lavoro, elaborazione di un leporello personale con una narrazione minima ma autentica di un determinato frammento di esistenza in un preciso luogo. Premessa fondamentale è proprio l’autenticità del vissuto, che rende ogni dettaglio vero e insostituibile. Per ragioni organizzative i materiali a disposizione non erano portati da casa appositamente dai partecipanti, ma forniti dalla sottoscritta cercando di individuare elementi comuni a tutti coloro che avessero percorso almeno un tragitto cittadino: biglietti dei mezzi pubblici, scontrini, numeri per l’attesa del turno, pagine di libri, foglie, oggetti comuni in grado di lasciare impronte se inchiostrati, come chiavi, penne, tacchi, interruttori, bicchieri. In molte persone era forte l’esigenza di inserire l’elemento autobiografico attraverso la presenza di loro stessi come protagonisti della narrazione e a ciò faceva spesso seguito la frustrazione di non poter utilizzare il disegno (un’altra limitazione era infatti questa: non ricorrere al disegno per evitare una eccessiva soggettivizzazione delle immagini) o altre forme di auto rappresentazione. In realtà a questo bisogno si può fare fronte molto semplicemente ricorrendo alla simbolizzazione, lo stesso processo che avviene quando in un gioco da tavolo scegliamo una pedina o un piccolo simbolo per rappresentare noi stessi, una sorta di “Avatar” che nella traduzione grafica può essere individuato tra le impronte rilasciate da un oggetto o da un frammento di una carta particolare. Non ha forse agito nello stesso modo il grande Leo Lionni quando nel suo classico per l’infanzia “Piccolo giallo e piccolo blu” ha reso protagonisti del racconto due semplici frammenti di carta colorata? E la corrispondenza tra l’immagine di sé e la versione disegnata che siamo in grado di farne spesso non è certo superiore a quella che può esserci con un simbolo, anzi, quest’ultimo può essere più denso di significato rispetto alla prima, come nel caso in cui il contabile di una azienda ha scelto per autorappresentarsi un frammento di una vecchia fattura! Lo stesso processo di simbolizzazione si estende poi ai luoghi, ma in questo caso diventa ancora più pregnante dal momento che elementi che rimandano ad un luogo preciso sono spesso parte di esso, come quando per creare l’ effetto di palazzi con finestre tutte uguali e squadrate si sono usate le impronte dei copri-interruttore in plastica provenienti proprio da abitazioni degli anni 70.

Naturalmente la sensibilità estetica e in taluni casi artistica ha diversificato l’esito di questi racconti grafici, fatti di collages, impronte, cuciture, scomposizioni di immagini, testi di riviste e vecchi libri, ma l’obiettivo non era tanto la “bellezza” delle singole opere, quanto indurre una discussione e un ragionamento spesso collettivo su quali siano gli elementi concreti capaci di connotare un luogo, in grado pertanto di renderlo unico nella nostra percezione. Fondamentale quindi alla fine vedere come questi elementi, anche simbolizzati o parcellizzati in frammenti, costituiscano una sorta di dna che, se riconosciuto e memorizzato, sarà un patrimonio che diventerà nostro dovere cercare di trasmettere e salvaguardare per le generazioni venture.

Daniela Pergreffi è artista e illustratrice, predilige l’uso di materiali riciclati. E’  docente di “Illustrazione” nel dipartimento di Design della Comunicazione dell’Accademia di Belle Arti di Napoli.