Testo e foto di Alessandro Balduzzi

In una regione che ha fatto del check-point e del presidio delle frontiere un tratto saliente della propria caratterizzazione, il quartiere di Mea Shearim spicca per la loro assenza. Nessun muro, nessuna rete, nessun controllo all’accesso. Ciononostante, il quartiere rappresenta probabilmente il più peculiare e appartato dei microcosmi che compongono la galassia gerosolimitana. Fondato nel 1874 sul modello di un ghetto, Mea Shearim è lo sfondo della reclusione volontaria cui si sono confinati gli haredim, coloro che tremano al cospetto di Dio. Gli ebrei ultraortodossi, in parole povere.

Il quartiere è un microcosmo le cui orbite si misurano con il diametro delle larghe tese dei cappelli neri, o con il raggio delle spirali con cui scendono i capelli arricciati dalle orecchie degli uomini, o ancora con l’angolo dell’inclinazione assunta da chi è intento in un’oscillante preghiera presso la fermata dell’autobus.

Ora Mea Shearim è una realtà ben nota anche al di fuori di Israele grazie alla serie televisiva “Shtisel”, che narra le vicende terrene dell’omonima famiglia sullo sfondo del crocicchio di vie del quartiere (e del confinante Geula, egualmente ultraortodosso). Considerando l’assenza di barriere tangibili, uno a Mea Shearim ci può pure finire per caso, vagando per una Gerusalemme che poi tanto grande non è. Non accorgersi di varcarne la soglia, però, è abbastanza improbabile; e ciò malgrado la presenza ortodossa (più o meno “ultra”) sia sempre più diffusa in città. Primo indizio è – prevedibilmente – l’abbigliamento. Per le strade nessun uomo gira a testa scoperta. Che sia tramite una semplice Kippah o un più impegnativo shtreimel, il cappello di pelo distintivo dei coniugati, la fede di ciascuno è visibile letteralmente da capo a piedi. Per entrambi i sessi il colore d’ordinanza è il nero, che nel caso delle donne si declina anche nelle lunghe gonne attorno alle quali sciamano stuoli di bambini, carrozzine e passeggini. L’ingiunzione divina di andare e moltiplicarsi qui non é certo rimasta lettera morta, come testimoniano ulteriormente le pance tondeggianti fasciate dalle vesti di molte tra le ragazze che affollano i marciapiedi. E in effetti la riproduzione è la missione principe tra le donne del quartiere, insieme al lavoro – dentro e fuori casa – necessario a integrare i sussidi statali; quanto agli uomini, in grandissima parte si dedicano esclusivamente allo studio della Torah nelle yeshivot, proficuo forse per lo spirito ma certo non per il portafoglio.

L’osservatore poco informato potrebbe forse pensare che l’adesione alle leggi sacre sia proporzionalmente diretta a quella allo Stato ebraico, rendendo così gli ultraortodossi i massimi sostenitori dello Stato ebraico. Nulla di più falso. Larghissima parte degli haredim, infatti, vede in Israele una forzatura del disegno divino, un’esecrabile intromissione dell’uomo che ha voluto ricreare un ipotetico regno dei cieli sulla terra. Da qui deriva il rifiuto di prestare il servizio di leva (obbligatorio per tutti gli altri ebrei israeliani), la diffusa astensione dal voto, la propensione a parlare l’yiddish piuttosto che l’ebraico. Una “renitenza allo Stato” che quest’ultimo tollera per non inimicarsi il rabbinato e le fasce di popolazione più osservanti, le quali – laddove si rechino alle urne – sostengono partiti che nell’attuale governo Netanyahu hanno raggiunto un peso mai visto prima.

Un detto israeliano afferma che Gerusalemme prega e Tel Aviv si diverte. La prima affermazione è quanto mai calzante a Mea Shearim, dove persone che si considerano gli eletti di un popolo eletto si racchiudono in un piccolo mondo antico kosher (ossia religiosamente lecito). E kosher ha da essere anche il cellulare, che non può avere connessione a internet, collegamento pressoché satanico con una contemporaneità corrotta.