Testo e foto di Francesco Sandri
Vento e notte di onde alte. La tempesta infuria lungo la costa ovest dello Jutland. Spruzzi di acqua salata riempiono l’aria, bagnando le dune che si stagliano scure a difesa dell’entroterra. Sembra che il mare del Nord voglia spazzare via l’intero regno di Danimarca prima dell’alba.
Nell’acqua nera annaspa un veliero. Non è riuscito a tornare al porto in tempo. Ora vaga alla deriva, spinto pericolosamente vicino alla costa dalle correnti. La chiglia sfiora il fondale. I marinai si tengono saldi al ponte. Sanno che il mare, quello stesso mare che li ha sempre nutriti e accuditi, stanotte chiede le loro vite. Ma all’improvviso una luce illumina il cielo. Un piccolo razzo parte dalla spiaggia, passa sibilando sopra la barca e si spegne tra le onde. Insieme al razzo arriva la speranza: una fune, un collegamento con la riva e con gli uomini del soccorso marittimo. Un metodo ingegnoso per salvare vite. L’equipaggio fa appena in tempo a raggiungere la spiaggia, mentre il veliero sprofonda nelle viscere marine.
Brezza, calma e sole. Siedo su una spiaggia del parco nazionale di Thy, la riserva naturale più grande della Danimarca. Il mare è placido. Sembra così lontano e diverso da quello dei racconti di tempeste, di vite spezzate, di nomi finiti tra le alghe brune del fondale. Eppure è lo stesso. Lo conferma la fama di cui gode il servizio di salvataggio locale. Per secoli ha pattugliato queste coste alla ricerca di navi in difficoltà. Per accedere al mare nei giorni di tempesta il personale di salvataggio aprì una via che si snoda protetta tra le dune deserte. Un cammino di sabbia, che oggi è diventato un sentiero percorribile solo a piedi, il Vestkyststien (sentiero della costa ovest). Ed è per questo che sono qui. Nei prossimi giorni mi aspettano i suoi oltre 80 chilometri di spiagge e foreste: il lato più selvaggio della Danimarca.
Parto da Agger Tange, verso nord. Il sentiero si getta subito nell’oceano di sabbia che inonda la costa. In pochi passi il mondo scompare dietro le dune. Sembra di essere circondati da enormi onde di terra cristallizzate nell’attimo prima di rompersi in un boato polveroso. Le dune sono tenute insieme da un fitto tappeto di brughi, eriche e mirtilli. Con le loro radici domano la potenza di questa sabbia in movimento, che se fosse libera viaggerebbe lontana, spinta da un vento selvaggio che non smette mai di soffiare. Un vento che prende la rincorsa per centinaia di chilometri sulla pelle liscia del mare del Nord per poi gettarsi di colpo contro la costa. Un vento testardo, tenace, incessante, che ulula nel vuoto, dove non c’è nessuno ad ascoltarlo. Chi potrebbe pensare di vivere solo di sale, vento e sabbia?
Qualcuno deve averlo fatto, perché a un certo punto il Vestkyststien incontra le case di Lyngby. Sono poche, di legno, protette da qualche pino sghembo. Lyngby è nata da un destino sfortunato. Chi l’ha fondata prima viveva sulla costa, ma un giorno la rabbia di qualche dio ingrossò così tanto il mare da spazzare via il loro villaggio. Senza casa, con le poche assi raccolte dopo la mareggiata, sono giunti fino a questa conca tra le dune, appena protetta dal vento, dove hanno costruito le prime dimore di paglia e torba. Vita difficile la loro, sotto un cielo denso di nuvole basse che si possono quasi toccare. Terra magra, infertile. Durante i tempi di carestia allestivano trappole per gabbiani. E si sa che i gabbiani non sono una prelibatezza, disprezzati perfino dai naufraghi. Ma gli scampati di Lyngby non potevano fare i raffinati. Così hanno resistito. Oggi i loro discendenti vivono nel caldo di case comode, in un posto privilegiato a due passi dal mare.
Ritorno in cammino. Il paesaggio ha un gusto indeciso. È terra o è mare? Non lo sa nemmeno lui, splendido nella sua indecisione. Scavalco le dune, attraverso inaspettati pascoli verdi e infine entro nel bosco. Alberi tutti uguali, scuri, cresciuti in file ordinate. È un bosco umano, una piantagione. È la lunga linea verde che separa il Thy National Park dal resto del paese, creata nei secoli scorsi per frenare l’avanzata della sabbia verso la campagna danese. È una terra di nessuno, come quella tra due confini nazionali. Una terra sospesa che porta con sé l’odore balsamico degli abeti. Oltre il bosco i campi di segale provano a maturare al sole di giugno.
Mi torna in mente il giorno in cui sono arrivato in Danimarca, due anni fa. Tra le stesse spighe a quel tempo già bionde Il treno sfrecciava verso Copenhagen. Non avevo idea di dove stessi andando, di cosa avrei trovato, di cosa avrei cercato. Casa, forse? La risposta è stata un no sussurrato all’orecchio. Casa non può avere inverni così scuri. Non le possono mancare i monti, la roccia, le foreste muschiose e selvagge. Mi dispiace dirtelo, Danimarca, ma a volte ho guardato la tua generale piattezza con una nota di delusione. Però hai ancora una possibilità. Pochi giorni, prima che io ti saluti per lungo tempo. Puoi ancora mostrarmi la tua bellezza.
I ricordi sfumano mentre seguo il cammino fino a Nørre Varupør. Famiglie di turisti punteggiano la spiaggia come conchiglie. Barche di legno dai colori pastello dormono sulla sabbia, appoggiate pigramente su un lato. Hanno una forma tozza e arrotondata, il fondo piatto per essere tirate a secco sulla riva e una struttura solida per resistere ai capricci di questo mare inquieto. Ogni tanto qualcuna torna da una battuta di pesca. Grosse mani scaricano i merluzzi che ancora si dibattono nelle casse. La loro pelle luccica per poco al sole, prima di finire nei magazzini dell’affumicatoio poco distante. Mi sento così lontano da Copenhagen e dalle sue pretese di grande città. L’aria è dolce.
Continuo verso nord. A destra le dune, a sinistra le onde. I piedi affondano a ogni passo. La prossima tappa, visibile all’orizzonte, diventa un miraggio che sembra allontanarsi sempre più. Poi imparo a conoscere la sabbia, a distinguere quella morbida da quella più stabile, a muovere i piedi con più sicurezza. Così riesco ad arrivare a Klitmøller, conosciuta anche come Cold Hawaii. In piena estate è una località popolare tra i surfisti del Nord Europa, mentre ora è un paesino silenzioso e desolato. Le uniche presenze sulla spiaggia sono i vecchi bunker che facevano parte del “vallo atlantico” costruito dall’esercito tedesco ottant’anni fa. Grandi bestie di cemento lasciate a sciogliersi lentamente, onda dopo onda. Prima o poi il mare finirà di sgretolarli. Torneranno a essere un mucchio di sabbia e sassi incurante di ogni guerra, vincitore o vinto.
Gli ultimi passi mossi sul Vestkyststien vengono cancellati dalle onde. Si perdono nel confine sottile tra la terra e il mare. Seguono una costellazione purpurea lasciata dal passaggio di una tempesta: migliaia di piccole stelle marine appoggiate sulla riva. La spuma bianca si scioglie sfrigolando in bollicine frizzanti. Ipnotizzato dallo sciabordio, inizio a sentirmi onda anch’io, in viaggio verso acque lontane, verso il caldo del sud e i suoi aromi mediterranei. È arrivato il momento di lasciarti, terra nordica. Dico addio alle tue lunghe notti estive, al buio degli inverni e ai tuoi cieli troppo spesso grigi. Ma il piccolo cuore selvaggio in cui mi hai ospitato in questi giorni mi regala un buon ricordo di te, Danimarca. Il parco nazionale di Thy è ciò che hai di più puro; piccolo frammento della tua vera natura. È quello che rimane togliendo tutto il superfluo. È la riconciliazione che cercavo.