di Valeria Cipolat

Ancora una volta i TG nazionali mi catapultano in un’altra vita vissuta troppo tempo fa. In questi giorni di aprile il Sudan sta esplodendo e l’Europa sta evacuando i propri cittadini da quel Paese con tutti i mezzi possibili. Approfittando del caos, seguaci di Omar al Bashir, l’ex Presidente accusato dalla Corte Penale Internazionale di crimini contro l’umanità, sono ora a piede libero.

Per lui nel 2009 era stato emesso un mandato di arresto internazionale. Durante il sanguinoso conflitto in Darfur, regione grande quanto la superficie della Francia, erano state uccise oltre 300.000 persone e il numero di sfollati aveva superato il milione. Le donne di quella regione erano quelle che avevano subito le violenze più efferate dai sanguinari janjaweed, “diavoli a cavallo”, come li chiamava la popolazione: bruciavano i villaggi, stupravano le donne, uccidevano gli uomini e rapivano i bambini per renderli schiavi. Un incubo che nessuno vorrebbe rivivere.

Ripenso al 2005 quando avevo passato tre mesi proprio in Darfur, lavorando con una Ong italiana. Era il mio primo viaggio in un Paese musulmano e anche il mio primo viaggio in Africa. Il Sudan era un Paese che da pochi mesi stava uscendo da una guerra civile.

Il mio compito era stato quello di supervisionare un progetto finanziato  dall’UNICEF che consisteva nella trivellazione di pozzi in zone di passaggio delle popolazioni sfollate e  curare le relazioni con le altre Ong internazionali, i possibili donatori e le altre agenzie delle Nazioni Unite presenti nella zona.

Ricordo che a quel tempo, Khartoum era una città molto tranquilla. Non avevo paura a guidare da sola la sera, una volta presa confidenza con le vie della città. Di giorno il traffico era molto caotico. Rispettare le precedenze, mettere la freccia per inserirsi nel traffico, guardare dallo specchietto retrovisore se sopraggiungevano veicoli, erano pratiche assolutamente sconosciute in quella capitale.

In Sudan gli stranieri erano generalmente ben accolti. Per le donne europee non era necessario andare con il capo coperto o con abiti che coprissero interamente braccia e gambe fino ai piedi. L’importante era non indossare magliette o pantaloni troppo aderenti o camicie troppo scollate. Banditi anche pantaloni con la vita troppo bassa e magliette troppo corte. Ovviamente “no” alle canottierine; nonostante le temperature locali che sfioravano normalmente i 40-45 gradi centigradi, il buon senso ed il rispetto per i costumi locali alla fine doveva prevalere. Allora in Sudan governava la Sharia che era stata imposta dal 1983, un periodo relativamente breve per sentirne realmente il peso. Personalmente non ho ricordi di essermi mai sentita minacciata.

I voli del WFP (World Food Programme) garantivano agli operatori umanitari i collegamenti aerei gratuiti per raggiungere il Darfur, che si trovava ad un paio d’ore d’aereo dalla capitale. Alle sei del mattino l’aeroporto era molto più simile a un mercato brulicante che ad uno dei nostri asettici aeroporti europei. Per arrivare al banco del ceck-in bisognava sapersi destreggiare tra bagagli di ogni forma e dimensione dei passeggeri delle altre compagnie commerciali, che invadevano qualsiasi spazio esistente nella sala, cercando di fare accettare i propri fardelli senza pagare la sovrattassa dovuta per l’eccesso di peso.

Spesso lo stesso volo faceva scalo in più città (El Fashir, El Obeid), depositando in ognuna alcuni Aid Workers,per cui il viaggio si protraeva oltre gli orari previsti. A volte il volo veniva anche cancellato all’ultimo momento senza preavviso, per controlli tecnici di manutenzione che non passavano i parametri di sicurezza. La cosa migliore era armarsi di tanta pazienza e di un buon libro per qualsiasi imprevisto. Dopo un po’ di tempo passato in quel Paese e iniziando a conoscere come funzionassero le linee aeree, commerciali o umanitarie, cominciai a capire il significato della parola Inshalla! (se Dio vuole).

Ricordo che durante gli spostamenti aerei, osservavo la geografia di Khartoum: grandi strade parallele si intersecavano formando quartieri perfettamente squadrati e decine di minareti si ergevano dalle innumerevoli moschee che si scorgevano facilmente dal finestrino. La città era sorta nel punto in cui il Nilo si sdoppiava per formare il Nilo Bianco ed il Nilo Azzurro. A mano a mano che ci si allontanava dalla città le costruzioni si diradavano, anche il paesaggio e la vegetazione cambiavano bruscamente,  lasciando improvvisamente il posto al deserto vero e proprio.

Nyala

A circa due ore di aereo da Khartoum c’era la città di Nyala, dove si trovavano anche le sedi delle principali Ong internazionali e le sedi delle Nazioni Unite che da lì operavano in tutta la regione. Appena sbarcati dall’aereo, per poter recuperare i nostri bagagli dovevamo passare attraverso il controllo dell’HAC(Humanitarian Aid Commission). Non si poteva entrare in Darfur senza il Travel Permit (permesso di viaggio) della Commissione di Aiuti Umanitari rilasciato ai cooperanti. A volte succedeva che il permesso fosse scaduto (non sempre ci si ricordava di controllare i numeri scritti in Arabo): in quei casi il malcapitato veniva arrestato sul posto per accertamenti, con modi gentili ma fermi degli ufficiali armati di Kalashnikov.

Nyala era la capitale del Southern Darfur, tappa obbligatoria per arrivare alla zona del nostro progetto, Edain. Era la città dalla quale qualche settimana prima della mia partenza era stata fatta una diretta dal Festival di San Remo, per far conoscere agli italiani che il nostro governo stava facendo qualcosa di concreto in questa parte del mondo, e cioè la costruzione di un ospedale per bambini che qualche anno dopo Emergency avrebbe trasformato in realtà.

Nonostante il corfew (coprifuoco) che veniva imposto dalle 11 di sera alle 6 del mattino la città era piuttosto tranquilla. A quel tempo i Janjaweed – milizie appoggiate dal governo di Khartoum – continuavano a seminare morte e terrore tra la popolazione civile nei villaggi fuori la capitale e nei campi di IDP’s, gli sfollati. Durante le riunioni di coordinamento, non era inusuale ascoltare rapporti menzionare attacchi ai villaggi da parte dei Diavoli che arrivavano in groppa di cavalli e cammelli per seminare morte e distruzione. A sentire questi racconti poteva scappare da ridere, ma quello che lasciavano questi gruppi dopo il loro passaggio non era per niente divertente. Tale situazione di indifferenza da parte della comunità internazionale era stata da molti paragonata a un altro “caso Rwanda “.

La nostra casa-ufficio a Nyala era composta da tre camere il cui mobilio consisteva in un letto con zanzariera per ciascuna stanza. In una delle stanze c’era un grande armadio di legno a tre ante che ci dividevamo per riporre le nostre cose. Uno sgabuzzino interno con foro di scolo fungeva infine da Hammam. Qui era possibile lavarsi con la tecnica del secchio e scodella. La doccia era considerata un lusso.

Ogni mattina intorno alle cinque la voce del muezzin lanciava la sua prima preghiera dal minareto della moschea più vicina decretando l’inizio della giornata. Nel momento della preghiera tutte le attività commerciali si fermavano. A volte capitava di trovarsi nel negozio poco prima della preghiera; allora con il permesso del commerciante si sceglieva la merce di cui si aveva bisogno per poi attendere la fine della preghiera per saldare il conto. Per noi occidentali era molto suggestivo vedere questo rito, soprattutto al tramonto, quando i raggi del sole, misti alla polvere sospesa, rendevano mistico questo momento di condivisione, quando gruppi di uomini e ragazzi pregavano al tramonto.

Le donne invece difficilmente pregavano in gruppo. Normalmente lo facevano in luoghi chiusi o nella propria casa per cui era praticamente impossibile vederle pregare in pubblico.

Edain

Gli spostamenti tra città venivano garantiti da voli commerciali o dai voli del WFP, effettuati con piccoli aerei cessna o da grandi elicotteri pilotati da personale dell’ex Unione Sovietica. Era un po’ strano sentir parlare lingue dell’Est a quelle latitudini e osservare questi omoni che potevano sembrare domatori di orsi di un circo itinerante o in un film di Kusturica, piuttosto che piloti e meccanici nel deserto africano. 

Era con uno di questi velivoli che, dirigendoci verso est, dopo circa un’ora di volo arrivavamo a El-Edain. I collegamenti del WFP con la capitale del Darfur meridionale avvenivano tre volte alla settimana. Esisteva anche un volo commerciale una volta alla settimana che arrivava direttamente da Khartoum. La pista dell’aeroporto era ancora di terra battuta e sassi e ogni volta che atterravamo mi chiedevo come fosse possibile riuscirci senza forare.

Qui non c’erano strade asfaltate e per gli spostamenti era indispensabile munirsi di veicoli  4×4. Il nostro compound distava venti minuti dall’aeroporto. La casa era molto grande completamente circondata da alte mura e filo spinato. Qualche albero di frangipane creava un po’ di ombra. La maggior parte delle notti dormivamo in cortile, ognuno sul proprio letto munito di zanzariera: troppo caldo per dormire all’interno. Per alcuni mesi dopo il mio ritorno, avevo fatto fatica a riabituarmi a dormire in casa.

Nonostante la città si trovasse al centro del Sudan si poteva quasi credere di trovarsi in qualche località sulla costa. La cittadina infatti sembrava sorgere su una spiaggia molto sporca. Mancava solo il mare. Anche le macchine a trazione integrale e i pneumatici larghi erano messi a dura prova in quel terreno sabbioso e durante la stagione della pioggia i solchi che si creavano sulla strada rendevano l’intera rete viaria praticamente impraticabile.

Con i responsabili del WFP riuscimmo a fare dei sopraluoghi intorno la città per vedere le reali condizioni nei diversi insediamenti di IDPs che si erano installati nei dintorni. La prima comunità che avevamo visitato si trovava a nord della città, oltre la ferrovia. Era formata quasi interamente da popolazione araba. Parlammo con gli sheiks (i capi-villaggio), ci fecero sedere su una branda davanti alla capanna del più anziano e un po’ alla volta tutti gli uomini ed i ragazzi si erano avvicinati. I bambini si erano distribuiti in silenzio dietro di noi, mentre le donne e le bambine erano rimaste a guardarci da dietro un albero un po’ più lontano. Ci avevano raccontato  che erano arrivati lì l’anno precedente e che erano stati ben accolti dalla popolazione locale. Inizialmente pensavano di ritornare ai loro territori di provenienza durante l’epoca delle piogge, per il periodo della semina, ma laggiù  non era più sicuro. Così avevano deciso di restare. Il governo locale aveva pensato di dar loro delle terre per potersi stabilire definitivamente, ma si stava ancora trattando poiché, per queste terre, avrebbero dovuto pagare una somma di denaro che – per quanto modesta – non tutti possedevano. Ci avevano confermato che già ricevevano cibo ed altre donazioni, ma la quantità per persona non sembrava essere quella stabilita dai parametri ufficiali. Inoltre poiché giornalmente continuavano ad arrivare nuove persone, il cibo veniva ulteriormente condiviso con i nuovi arrivati.

Avevamo proseguito verso sud percorrendo il perimetro della città. Qui ci eravamo imbattuti con un gruppo di persone dai tratti decisamente diversi. Provenivano dal sud del Sudan probabilmente eramo Dinka. Rispetto alle popolazioni arabe questi erano molto più alti e magri. Inoltre le popolazioni del Sudan meridionale erano per lo più cristiane. Alcuni portavano dei segni distintivi sul volto a seconda della tribù di appartenenza. Molti avevano sulla fronte delle cicatrici di tagli orizzontali, probabilmente eredità di riti di iniziazione. La maggior parte di loro erano radunate sotto un grande albero. Sembravano attendere delle donazioni. Per non disturbare avevamo preferito fermarci a parlare con un gruppetto ridotto che si trovava a qualche centinaio di metri sotto un altro grande baobab. Dopo pochi minuti però qualcuno si era staccato dal grande gruppo e ci aveva raggiunto. Ci accorgemmo subito che il capo con il quale stavamo parlando poco prima non godeva di molto rispetto. I nuovi arrivati, uomini, donne e bambini, parlavano ad alta voce, interrompevano la nostra conversazione, e si erano piazzati un po’ alla rinfusa cominciando a fare una gran confusione, per cui non era più stato possibile continuare a dialogare. Nel giro di pochi minuti eravamo stati completamente circondati da almeno 400 persone e – a dir il vero – ci sentivamo anche un po’ minacciati, pertanto, a fatica eravamo riusciti a risalire in auto e ad abbandonare quel luogo.

Ritornando verso il centro della città eravamo passati vicino alla discarica principale, dove oltre alle immondizie s’intravedevano carcasse di animali, per lo più di asinelli. In Sudan questi quadrupedi venivano utilizzati prettamente per la distribuzione dell’acqua. Ogni città o villaggio aveva uno o più pozzi. Una volta estratta l’acqua dal pozzo, si utilizzavano gli asini per la distribuzione fino alle case. Questi trainavano i carretti dell’acqua per alimentare la riserva domestica nelle case dove non esisteva la rete idrica locale o a integrazione di questa, quando l’acqua non arrivava puntuale.

Rientrando…

Dopo qualche tempo passato in questa parte del Paese, rientrando a Khartoum si aveva l’impressione di arrivare in una modernissima metropoli. Poco importava che nella capitale ci fossero solo pochi ristoranti affidabili, una gelateria italiana, nessuna discoteca e non si bevessero alcoolici. Poco importava che si fosse ancora in mezzo al deserto ed il vento locale (habub) generasse mulinelli di sabbia talmente fine e insidiosa da far chiudere l’aeroporto come quando a Milano c’è la nebbia. Con un po’ di fantasia si poteva far finta di stare in un Paese Occidentale. Entrando nel modernissimo centro commerciale di Africa Road si potevano vedere cellulari talmente moderni da non essere ancora commercializzati in Europa o giganteschi maxi schermo al plasma per vedere programmi captabili solo con le antenne satellitari. Anche questo era Sudan.

Fiori di frangipane a Edain

Tre mesi. Tanto era durata la mia missione in quel Paese. Guardando dal finestrino del mio aereo avevo osservato per l`ultima volta il Nilo dall`alto e riflettevo. Mi domandavo se il mio lavoro fosse stato utile; mi chiedevo se fossi riuscita a creare qualcosa di veramente utile e se questo avesse potuto cambiare il futuro di qualcuna delle persone che avevamo incontrato.

Sapevo che molte cose mi sarebbero sembrate differenti. Mi sarebbe sembrato strano schiacciare un interruttore e scoprire che la luce funzionava; aprire il rubinetto e stupirmi che ci fosse acqua corrente; uscire per la strada e domandarmi come mai non ci fossero donne coperte di veli colorati, o uomini che guidavano senza indossare un turbante o che pregavano in gruppo alla luce del tramonto, o bambini vestiti di stracci che portavano pesanti contenitori d`acqua o ragazzi in groppa agli asinelli. Mi sarà sembrato veramente strano uscire tranquillamente dopo le dieci di sera e trovare ancora gente per la strada con un bicchiere di vino in mano o incontrare qualche amico e non salutarlo con un Salam aleikum!