Testo e foto di Andrea Staid

Viviamo una contemporaneità segnata dai disastri ecosistemici, ogni giorno dobbiamo sempre di più fare i conti con il cambiamento climatico. Questa crisi ecologica e sociale è dovuta soprattutto ai nostri stili di vita non sostenibili ma anche dal modo in cui ci vediamo come specie nel cosmo. Siamo una società estremamente antropocentrica in cui tutti i viventi che ci circondano sono oggettificati, ovvero completamente svuotati da diritti e pensati come merce. Usiamo tutto solo per il nostro benessere e separiamo nettamente il nostro concetto di cultura dalla natura, senza renderci conto che ne facciamo parte.

Questo conflitto tra natura e cultura che noi, abitanti dell’Occidente moderno, abbiamo preso a paradigma del mondo, è solo una delle visioni possibili, create dagli esseri umani per potersi adattare a vivere nell’ambiente che li circonda. Per questo risulta immediatamente comprensibile che il nostro modo di pensare l’ecologia, il concetto stesso di “preservare la natura”, è una costruzione culturale relativa al suo contesto di produzione e di fatto non universalmente comprensibile. Non è così semplice capire questa separazione natura/cultura al di fuori dell’Occidente.

E’ importante comprendere che questa visone del mondo non caratterizza tutti i gruppi umani presenti sulla terra, ci sono tanti modi culturalmente specifici di pensare, immaginare e relazionarsi con il concetto di “natura”. In contrasto con la cosmovisione occidentale, che tratta spazi naturali come semplici e inerti fonti di risorse materiali a esclusivo vantaggio dell’essere umano, ci sono altri modi di concettualizzare il vivente, dove il mondo “naturale” è composto da soggetti e dalle relazioni comunicative che tali esseri intrattengono tra loro e con noi animali umani.

“Il modo in cui gli altri generi di esseri ci vedono è importante. Il fatto che altri esseri possano vederci, cambia tutto. Se anche un albero o un giaguaro hanno una rappresentazione di noi, allora l’antropologia non può più semplicemente limitarsi a esplorare le rappresentazioni che le diverse società producono. Questi incontri con altri esseri ci spingono a riconoscere il fatto che vedere, rappresentare e forse conoscere, o persino pensare, non sono questioni esclusivamente umane” (E. Kohn, Come pensano le foreste, Nottetempo, Milano 2021, p. 41).

Nella mia esperienza nel Sud-Est Asia, quando cercavo di capire insieme agli abitanti indigeni Hmong e Dzao di quei luoghi cosa fosse per loro la natura, mi veniva sempre descritta come una sorta di un unico insieme dove tutto è inserito, dove tutto ha spirito, perché gli spiriti abitano tutte le cose e possono controllare la vita sotto forma di energie, perciò devono essere interpellati, rispettati e propiziati in ogni momento importante per il gruppo e il singolo. Ci si deve muovere con attenzione e rispetto nell’ambiente che ci circonda perché tutto ha un anima.

La mia ricerca etnografica negli ultimi anni si è concentrata attorno al tema della casa (A. Staid, La casa vivente. Riparare gli spazi imparare a costruire, Add, Torino 2021). Quello che mi hanno insegnato le popolazioni indigene con le quali sono entrato in contatto è che anche le case sono vive, sono pensate e agite come organismi viventi che nascono, crescono, si possono ammalare e morire. Questo non significa che la casa è una persona, ma che la casa non può essere pensata solo come materia o meglio come merce. La casa nella maggior parte delle comunità indigene che ho conosciuto è un organismo elastico, aperto verso l’esterno, include non soltanto il costruito, ma l’ambiente di vita e i significati simbolici che le comunità vi iscrivono. Attenzione, comunità di viventi, non solo comunità di animali umani, ma società complesse abitate da animali, piante e montagne. Potremmo semplificare dicendo che è una casa di relazioni tra i viventi, o meglio che la casa è la natura.