Testo e foto di Umberto Cecchi

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La sera, a cena, mi aveva detto: vieni domani mattina a casa, per colazione. Alle sette, poi devo partire. Sii puntuale. Al tavolo con noi c’era anche il suo successore ma tutti  nella sala venivano ad onorare lui,  Nelson Rolihlahla Mandela, chiamandolo ‘Madiba’, antico titolo delle tribù  Thembu del Transkei. Sembrava un re nero fra i suoi sudditi. Parve capire quello che pensavo e mi disse a bassa voce, ironico: niente corse in avanti con la fantasia politica, sono solo uno come tutti gli altri. Solo che sono più vecchio e ho sulle spalle decenni di galera. Il presidente Mbeki, seduto accanto a me ci guardava curioso. Per capire che rapporto ci fosse fra noi due. Glielo spiegai: quando lo liberarono da Robben Island, gli dissi, io c’ero. Parlai a lungo con lui. E lui mi raccontò  una cosa che mi rimase nella mente: avrebbe desiderato costruire un aquilone, one kite, da far volare su quello sputo di roccia affiorante dal mare. Ma non glielo permisero mai. Avevano paura che trasmettesse messaggi cifrati ai suoi ‘complici’. Mbeki, basso, elegante, un po’ affettato, annuì incerto, ma che sapeva di aquiloni, lui, coi suoi gemelli d’oro?

Alle sette ero nel cortile di casa Mandela, guardato a vista dalla sicurezza, alle sette e due minuti ero seduto a  tavola, a colazione con il Grande Vecchio d’Africa. Avevo incontrato un presidente accorto come Nyerere della Tanzania, un pazzo come Idi Amin Dada dell’Uganda, un poeta come Sedar Senghor, senegalese, ma questo era diverso da tutti. Mi sorrideva vagamente triste, e come un bravo padrone di casa, mi presentò la sua ‘nipotina adottiva’, che era stata miss Sudafrica e si vedeva. Era una ragazza dalla pelle di un nocciola chiaro con occhi e capelli d’un nero assoluto, gli stava  porgendo alcune pastiglie su un piattino che lui guardava con disgusto, le inghiottì poi si alzò lentamente, faticosamente: alto, incerto sulle gambe, i capelli bianchi come una sorta di aureola, mi prese per mano e mi accompagnò nel suo studio, in fondo alla casa piena di attestati e ricordi, dove mi mostrò la foto della sua cella: un bugliolo, uno sgabello, un minitavolo e un armadietto smaltato appeso al muro. ‘Qui, mi disse, sopravvivevo senza medicine, ora non fanno che avvelenarmi. Mi trattano come un pollo d’allevamento.

C’era una carta del Sudafrica, mise il dito su un ampio tratto verde e: ‘Sono nato qui, in una grande capanna. Non ho fatto molta strada: tutto sommato non è poi così lontano da Jo’burg, non ti pare? Poi come parlando a se stesso: In realtà è infinitamente lontano, ma solo nella mente. Nei ricordi. Lo sai come mi chiamavo allora? Rolihlahla, che vuol dire ‘quello che crea problemi’. Credo proprio che sia un nome davvero azzeccato.

Obiettai che di problemi ne aveva risolti anche tanti. E lui: può darsi, mi disse con quel suo sorrido buono e malinconico, può darsi. Poi inseguendo i ricordi: La cosa più difficile non fu evitare lo scontro fra bianchi e neri, ma fra Zulu e Bantu. Ma di problemi ne restano. E l’Aids è uno dei principali. Qui si vergognano a dirlo che i ragazzi muoiono per Aids: a me son morti tre nipoti e mi batto senza vergogna.

Mi prese ancora per mano e tornammo a tavola dove riprese a mangiare con appetito. Ho spesso l’impressione d’essere solo, mi disse a un tratto senza guardarmi. E quando gli dissi che non lo era affatto, perché il mondo intero era con lui, annuì: sì anche a Robben Island il mondo era con me. Ma ero solo ugualmente: la sera, quando il sole spariva nel mare, era come morire ogni volta. Ma la sai una cosa? Avevo me stesso con il quale discutere, e a volte litigare con forza.

Cose passate, dissi banalmente. Ma lui. No, affatto: resta il dolore degli emarginati. In tutto il mondo resta per molti, troppi, la pena di vivere. Dobbiamo fare qualcosa. L’ho detto anche ad Elisabetta, un paio di giorni fa ed è d’accordo con me. Mi dicono sempre di chiamarla maestà, ma lei mi chiama Nelson e allora…

Si alza e: devo partire per il Mozambico ed è già tardi. Vuoi venire? Lo sai? Una volta da Maputo mandavano schiavi neri venduti al Sudafrica e spediti su treni merci piombati che impiegavano anche una settimana ad arrivare. Molti morivano in viaggio, e venivano rispediti al mittente come merce avariata. Mi abbraccia triste, gli dico addio Madiba, scuote la testa ed esce.

Fuori la scorta aspetta, l’autista lo aiuta a salire sulla macchina, lui mi guarda sorridendo e alza una mano a salutare. Triste. Poi sparisce nell’infinità dell’Africa dove, come diceva Senghor, non esistono confini, neppure fra la vita e la morte.

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Nelson Mandela ed Umberto Cecchi

Umberto Cecchi, giornalista, giramondo, attratto in maniera compulsiva dall’altrove e dal capire cosa ci sia oltre l’orizzonte. E’ stato direttore de ‘La Nazione’ e deputato al Parlamento italiano, ha scritto numerosi libri di viaggi e di politica, scrive per riviste internazionali fra le quali ‘Monsieur’.