Testo e foto di Andrea Semplici.

 

L’inverno è una storia lunga su queste colline che, forse, desiderano essere montagne.

La ragazza ha l’aria sfrontata. E racconta dei mesi del freddo. Con orgoglio. Ha vissuto a Roma. Ma questo è ‘il paese’.  Qui ha ancora un significato, dire: ‘Questo è il mio paese’.

I ragazzi ballano nella neve. Incuranti del gelo. Il professore, uomo dai grandi baffi e la grande pancia, griglia carne e salsiccia. Colletta da cinque euro per una festa d’inverno. A me, come sempre accade in questo Sud, è stato un invito. Un grazie a voi. Non potete nemmeno immaginare….

Il gelo entra sotto i maglioni, si infila nei calzini, raggiunge la pelle. Questo è il Carnevale di Satriano di Lucania. Il freddo ne fa parte.

Rocco ha viaggiato per l’Australia e il mondo. Ma questo, anche per lui, è ‘il paese’. Qua ha creato un piccolo giornale. Qua parla di carta certificata, bicchieri riciclabili, di recupero di anidride carbonica con nuovi alberi. Mi tiene a parlare in mezzo a una piazza colma di murales. Non bada alla neve che cade fitta. E sbaffa i segni del pennarello sul taccuino.

Il rumit è l’eremita. Uomo verde, uomo selvatico. Uomo-albero. Anzi, non è materia, è spirito. Non vi è nessuno sotto la maschera. Come nelle savane dell’Africa Occidentale, le maschere escono e sono l’anima della natura o degli spiriti benigni. Questo è un voodoo degli Appenini Lucani.

Però, poi, mentre le maschere organizzate si ritrovano nelle sale desolate della scuola elementare e giocano alla magia ingenua del travestimento, io seguo, per i boschi un padre e un figlio. Antonio e Matteo. Inzuppo le mie scarpe nella neve, gli alberi scrollano su di noi il loro carico umido e bellissimo. Non mi proteggo. Camminiamo in discesa, scivolo, mi rialzo, non voglio che se ne accorgano. Loro sanno dov’è l’edera. Ogni anno, il giorno prima del Carnevale, vengono qui a tagliarla. Cresce lungo un basso muretto. Cresce come già facesse parte della maschera. I due uomini hanno un coltello da cucina. Nient’altro. Antonio taglia e ammucchia l’edera. Matteo cerca il pungitopo per abbellire il suo vestito di natura. Vorrebbe trovare le bacche rosse, ma già sono cadute. Alla fine, Antonio va in cerca nel bosco più fitto: deve trovare il ramo che farà da bastone. Siamo bagnati di neve e freddo.

Il rumit è maschera silente. Non parla, non chiede, non pretende. Ma tende la mano. E’ il patto fra uomo e natura. Struscia sulle porte con il suo bastone di pungitopo. Si aspetta doni e denaro. E’ maschera muscia. Muta. Cammina, se ne va con un passo strascicato. Forse incerto. Cambia spesso direzione. Esce al mattino. Arriva dai boschi. Il rumit dona un buon auspicio in cambio di un regalo. Sono finite le scorte per l’inverno. Questo è il periodo più difficile dell’anno. E’ finito il fieno per gli animali. Esaurite le riserve dell’erba per le vacche. La carne del maiale è terminata. Bisogna aspettare un risveglio. Quanto ancora? Il rumit consola. Annuncia che la buona stagione sta avvicinandosi.

Ma così raccontano il Carnevale di Satriano e così, in fondo, accade. Matteo è giovane. Si diverte. Suo padre è stato rumit per anni e anni. Adesso incoraggia il ragazzo. Matteo vuole studiare arte a Firenze. Diventerà maschera per un giorno. Lo spirito dei boschi ha l’anima di un ragazzo di Satriano. Io non dovrei essere qui. Nessuno dovrebbe sapere chi si nasconde sotto l’edera dell’eremita. Ma io lo so. Il paese lo sa. Stiamo tradendo gli spiriti della foresta? Nelle radure di Dahomey, anni fa, sotto i nostri occhi, fecero sparire l’uomo, se uomo era, sotto il covone che noi stessi avevamo animato. La maschera danzò in una sera di sangue e cielo annerito. Danzò fino allo stremo per le nostre macchine fotografiche. E poi scomparve nel nulla. Il voodoo non si rivela agli stranieri. Non c’erano tracce di uomo sotto la maschera. Ci convincemmo davvero che la maschera era immateriale. Ricordo stupore e un incanto spaventato. Ce ne andammo turbati. Finalmente qualcosa che non potevamo capire. Solo in Africa sono rimasti gli spiriti? Matteo lascia tracce nella neve. Io conosco la sua identità e il suo numero di telefono.

Però a sera, a Satriano, i ragazzi, senza badare al gelo che precipita ben oltre lo zero, accendono un bidone di carbone e legna. Arriva il vino e il pane. Mi verso, a garganella, a cannetto, rivoli di vino aglianico sulla sciarpa. Sento il vino scivolare sulla mia guancia. Non mi stacco dalla canna. Vorrei essere qui sul serio. Vorrei far parte di questa comunità. Solo io e il professore siamo vecchi. Ma lui mi sembra il più giovane e matto. Io, come sempre, sono uno spettatore. Ricaccio il pensiero. Lo nascondo dietro un’assenza. Il professore è un maestro di orchestra, gli altri lo seguono. I ragazzi lo adorano. Appare l’organetto. Lo suonano con doppie mani. Il suonatore ha quattro mani e venti dita. Appaiono le ragazze. Finora c’erano solo maschi.  Le ragazze hanno finito università a Roma. Ne sono fiere. Ma ora qua stanno. Incerte nella vita che seguirà, forse. Ma che importanza ha ora? Adesso è la notte nella quale si danza nella neve. Danza la Satriano dei ragazzi. Vigilia di festa è buona ragione di fare festa. Una serata di balli è stata annullata per la neve. E allora, loro si sono presi una piazza. La più lontana, la più solitaria del paese. Là dove nessuno ha ripulito la neve. Ma questo non conta. C’è il vino, le sigarette che vengono rollate con abilità da mani che non si accorgono del freddo. C’è un ragazzo del Marocco che qua è cresciuto: ‘E’ più paesano dei paesani’, mi dicono. Un altro ragazzo mi svela i segreti del mio cellulare, mi collega al mondo da una piazza di neve. Un faro illumina un albero straordinario. Ricamo di gelo, Escher di Lucania. Mangio carne e salsiccia, bevo vino. Sto in disparte. Non vogliono che stia in disparte. La ragazza mi prende per un braccio.

Poi, alla fine, con gli occhi che danzano mi dice: ‘Ma come balli male’.

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