Testo di Laura Lenci

Foto di Germana Urbani

Negli scorsi tre articoli avevo voluto esplorare il paesaggio della pianura. Da un po’ mi frullava in testa l’idea che dovessi proseguire con la collina e così mi sono messa al lavoro. Invece, come spesso succede, le mie ricerche hanno preso a un certo punto una piega diversa. A richiamarmi continuamente a sé erano la città diffusa e le sue periferie. Non aree delimitate e ben definite da confini, ma un continuum urbanizzato in cui gli spazi agricoli, fondamentali supporti dell’economia e della vita padana, non sono ormai che “aree interstiziali”. Zone per lo più collocate nell’area pedemontana, come il veronese, il vicentino, il padovano dove la rapida, quanto brusca trasformazione dell’economia durante il cosiddetto miracolo ha portato a una altrettanto irreversibile e devastante trasformazione del territorio e del suo paesaggio. Ed eccoci al cuore dell’articolo.

Chiudete gli occhi. Dimenticate per un attimo che state insegnando, che qualsiasi parola, gesto, visione, suono non è più ingenuo da tempo ma sempre orientato alla lezione. Prendetevi una pausa dal nostro lavoro, meraviglioso ma senza veri tempi morti – anche quando diciamo che siamo in vacanza. Chiudete gli occhi. E, ascoltate:
«I Colli Berici sono dietro a Vicenza, a sud; con minuscole propaggini, come miniate, fanno vallette e insenature. In una c’è un laghetto triste che si chiama Fimón; al di là del laghetto si divaricano due versanti pelosi, come gambe distese. La divaricazione è considerevole sotto alle ginocchia, e lì c’è il lago, come una antica urinata del monte; dalle ginocchia in su il monte tiene le gambe più strette. A mezzo autunno noi siamo lì, in questo spazio interfemorale»1.

È letteratura o è geografia? Vale davvero la pena di fare una distinzione o approfittare dell’imperdibile occasione? La geografia, mi pare qui, si fonde con l’immagine poetica dell’uomo che si identifica nel suo paesaggio e che sa restituire la penosa storia dell’Italia e del passaggio dalla povertà assoluta al benessere che non vede e non sente ragioni. In mezzo, le due guerre.
Prendete dunque un foglio di carta, una matita e una gomma, se pensate possa servirvi. Rileggete ora il brano tra voi e voi e, sul foglio, riportate in un disegno il più fedele possibile quello che state leggendo. Se l’avete a portata di mano, confrontate il vostro lavoro con una veduta aerea dei Colli Berici. Se non l’avete, cercatene una on-line, per lo scopo va bene lo stesso.
Non è straordinario come il paesaggio coincida con l’uomo e l’uomo con il suo paesaggio? Ciò vale non solo per quello naturale, al quale non possiamo che applicare coordinate a noi corrispondenti (gambe pelose, gambe distese, gambe strette, spazi interfemorali, urinate), ma anche per il paesaggio antropico caratterizzato da una miseria che i nostri nonni e i bisnonni dei nostri studenti e delle nostre studentesse hanno conosciuto non nella letteratura, ma per davvero, quando portavano le scarpe in mano per non consumarle.

«Dicono di essere contadini, ma dove sono i campi? Gli uomini vanno a opere, o su pei boschi o là sotto oltre il lago. Le donne fanno figli e minestre, e vanno a prendere acqua coi secchi, e mescolano la polenta. Dove vanno in chiesa, e a scuola? Chi verrà quassù a curarli, se si ammalano? Quando devono scendere loro in città, ci vanno scalzi con le scarpe in mano» (p. 578-579).
Una povertà che non è solo nei gesti, nei comportamenti, nei visi scavati dalla fatica e dagli stenti, nelle schiene incurvate, nell’alimentazione, ma che si fonde con la forma stessa del paesaggio, scrive ancora Meneghello: «Queste case non mi parevano edifici, ma modi di vivere; le corti tra i castani, e le viottole, e le stalle, e i sottoportici, tutto era mescolato con la povertà, era questa la forma della valle e della vita italiana. Dissi a Bene: “Per uccidere la povertà, dovranno sfasciare l’Italia”» (p. 579).

Ecco, chiediamo anche ai nostri studenti e alle nostre studentesse di esercitare lo sguardo, di esplorare il paesaggio, di tradurlo graficamente su un foglio di carta, su una lavagna. Chiediamo loro di cercarvi l’elemento antropologico e personale e di restituirlo con i loro occhi, come quando guardando le nuvole si cerca di ritrovare una figura umana o qualcosa di noto, che appartiene alla nostra enciclopedia del sapere. Chiediamo anche di andare oltre, di riconoscerne i caratteri geologici, botanici o economici. Di vestire, insomma, i panni dei geografi.

C’è tutto questo e forse più in queste due pagine del romanzo di Luigi Meneghello. C’è questo e molto altro in questo libro che parla del bosco e lo paragona al cervello umano (p. 106). C’è tutto in questa storia che è anche geografia di un luogo che esiste grazie alla memoria. E’ traccia di un percorso di meraviglia anche quando tale percorso significa la nascita e il proliferare di quelle “fabbrichette” che hanno sfasciato il paesaggio d’Italia.


Note:
*Si impiega questo termine nell’accezione data dal geografo Eugenio Turri nel suo volume intitolato La megalopoli padana, Venezia, Marsilio, 2000.
1 Luigi Meneghello, I piccoli maestri, in Opere scelte, intr. Giulio Lepschy, Milano, Mondadori, 2006, p. 578. Le altre citazioni dal testo sono segnalate solo con il numero di pagina inserito tra parentesi.