Testo di Marco Maggioli e Marcello Tanca

Foto di Luisa Fazzini di un particolare della copertina del libro Pensare il paesaggio (Milano-Udine, Mimesis. 2022)

Con La pensée paysagère, che abbiamo recentemente tradotto in italiano col titolo Pensare il paesaggio (Milano-Udine, Mimesis. 2022), Augustin Berque ci consegna una riflessione di grande spessore teorico sul presente e la possibilità di continuare a elaborare proiezioni di futuro. Il suo punto di partenza è la constatazione dell’asimmetria riscontrabile tra i paesaggi che abbiamo ereditato dalle generazioni che ci hanno preceduto e quelli della contemporaneità. Il confronto tra gli uni e gli altri è tutto a favore dei primi sui secondi: facciamo fatica a circondarci di paesaggi nei quali sentirci a nostro agio, e per questo motivo guardiamo con un sentimento che oscilla tra il desiderio, il rimpianto e la nostalgia a quelli risalenti a epoche lontane.

Questa discrepanza, spiega Berque, è accentuata dalla consapevolezza paesaggistica che possiamo vantare nei confronti dei nostri predecessori. Libri, film, riviste e giornali, tv, film, fotografie, corsi di laurea, canzoni, fumetti, videogiochi, strategie di pianificazione, ecc. non fanno che inondarci continuamente di paesaggi, reali o immaginati. Il che sembrerebbe un fatto positivo, che deve rallegrarci, se non fosse che a questo profluvio di parole e immagini non corrisponde un’analoga capacità operativa di fare e difendere ciò che ci è così caro: «Non si è mai parlato così tanto di paesaggio come nella nostra epoca, non si sono mai avuti così tanti paesaggisti (nel senso qui di professionisti della pianificazione paesaggistica), non si sono mai pubblicati così tanti libri di riflessioni sul paesaggio (questo è l’ennesimo), in breve, non c’è mai stato un così intenso fiorire di pensiero del paesaggio…e, al contempo, non si sono mai devastati così tanto i paesaggi. Siamo dei gran chiacchieroni, sappiamo parlare molto bene del paesaggio, ma siamo anche in totale contraddizione con i nostri stessi discorsi; i nostri atti vanno in un senso opposto. Più si pensa il paesaggio e più lo si massacra» (p. 44). Tra il dire e il fare sembra esserci insomma una forte discontinuità, come se il fatto stesso di parlarne così tanto e così a lungo rappresenti, più che un incentivo, un ostacolo reale alla creazione di paesaggi di qualità. Un paradosso devastante: per secoli, quando neanche esisteva la parola per indicarli, le persone davano vita a paesaggi che costituiscono ancora oggi l’oggetto della nostra ammirazione, mentre oggi che disponiamo di intere biblioteche sul tema, questa capacità è come venuta meno.

Si tratta allora di scavare e fondo per arrivare al cuore di questo sorprendente contrasto. Il che è ciò che fa Berque in questo essenziale libro, forte anche della sua profonda conoscenza non solo della storia e della cultura occidentale, ma anche di quella cinese e giapponese. Questo sguardo così ampio gli permette di elaborare una lettura molto articolata e convincente in cui il confronto tra valori, idee e autori appartenenti a tradizioni culturali molto diverse tra loro è uno dei pilastri fondamentali. Per Berque, se vogliamo veramente capire qualcosa di questa vicenda dobbiamo cominciare col distinguere tra pensiero del paesaggio (pensée du paysage) e pensiero paesaggista (pensée paysagère). Il primo è il pensiero che ha per oggetto il paesaggio e si manifesta in forme e discorsi diretti ed espliciti, che tendono a definirne i confini e a definirlo come qualcosa che esiste al di fuori della nostra coscienza. Il secondo è – più che un modo di pensare – un modo di essere e di vivere la propria relazione col mondo che non necessariamente si traduce in parole. È, per intenderci, un rapporto di coinvolgimento che fa sì che la montagna che osservo mi appaia come il mio io esteriore. Il pensiero paesaggista è insomma il modo in cui per secoli le persone hanno percepito se stesse in relazione al loro ambiente circostante, ed è tipico delle civiltà non paesaggistiche, prive persino di una parola per dire paesaggio così come di sue raffigurazioni artistiche o poetiche, letterarie e tecniche. Questo accadeva perché non esisteva una cesura netta tra il sé e il mondo, e il dualismo moderno che vede contrapposti un soggetto e un oggetto non aveva ancora scisso la realtà in due tronconi distinti e lontani. Il che è quanto accade oggi, ed è accaduto nelle cosiddette civiltà paesaggistiche come la Cina del IV secolo d.C. e l’Europa a partire dal XVI.

Il nostro problema è che non pensiamo più paesaggisticamente, ma pensiamo il paesaggio. Sembra una differenza da poco, e invece è sostanziale, ed è all’origine della nostra incapacità di elaborare un rapporto non distruttivo nei confronti degli ambienti terrestri, oggi minacciati su più fronti. La compromissione delle condizioni di possibilità di una vita futura sulla Terra quale l’abbiamo conosciuta sino a oggi, e l’insostenibilità del nostro modo di produrre territorio è un bel problema, che va ben oltre la questione paesaggistica, ma che trova nel paesaggio un indicatore a suo modo attendibile. Tutto ciò compone la materia viva di cui si occupa Augustin Berque nel suo libro.