Testo di Claudio Simbolotti e foto di Giuliano Guida

Castello di Fiordimonte è stato una sorpresa (Cor Cinquino sull’Appennino tappa n.2) per avventurarci alla scoperta dell’Appennino marchigiano. Siamo nel territorio del Parco dei Sibillini, i monti svettano alti, le pareti sono ricoperte di rigogliosi alberi, la strada tranquilla e solitaria è di una piacevolezza incredibile, Carolina va spedita e in leggerezza anche se la piccola macchia d’olio ritrovata stamattina ci fa stare sul chi va là. Acquacanina è il comune più piccolo della regione, o meglio lo era, visto che da poco ne è stata decisa la fusione con quello di Fiastra. Facciamo riprendere il fiato alla nostra signorina mentre ci concediamo un caffè nell’unico bar del paese. Il barista incomincia subito a chiacchierare con noi e deduciamo immediatamente, anche in virtù del suo accento, che non è di questi pizzi. E’ un ragazzo siciliano che da anni ormai vive qui dove ha messo su famiglia e gestisce con la moglie l’attività, ci racconta che è un posto di pace e tranquillità, pure un po’ troppa forse, ma dove si vive bene. Ad agosto, si svolgono le feste che sono il momento di maggior afflusso, un evento che aspettano con trepidazione, poi si informa su di noi e gli mostriamo orgogliosi la nostra amata accompagnatrice.

La SP 91 costeggia l’azzurro lago di Fiastra e dall’altro versante della strada le pareti alte dei Sibillini continuano a farci compagnia. Una sosta davanti un bar ed alimentari dove possiamo rifocillarci e studiare sul nostro atlante stradale al 200 mila l’itinerario da seguire. Eh si, questo è un viaggio in lentezza e con un’automobile d’altri tempi e quindi era d’obbligo, ma anche più facile e naturale secondo me, usare delle buone e vecchie cartine stradali, lasciando la tecnologia dei navigatori a chi va di fretta. Noi abbiamo tutto il tempo che vogliamo, per fermarci, ragionare, studiare la cartina ma anche e soprattutto di cambiare direzione ad ogni incrocio, seguire l’istinto, il cuore e la natura di un viaggiatore attento all’ambiente che lo circonda. Un anziano signore osserva insistentemente la nostra donna, che se ne sia innamorato? Non gli stacca gli occhi di dosso, Carolina deve di certo aver fatto colpo, poi zoppicando con il suo bastone si allontana dagli altri avventori e ci confida candidamente di averne una identica, ma la nostra è molto più bella e curata della sua che è tutta rovinata e vorrebbe buttarla. “ Ci vado a funghi, ci sono affezionato, ma è quasi un rottame oramai” proferisce in uno stretto dialetto marchigiano.

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Proseguiamo verso nord attraversando le belle cittadine medievali di Tolentino e San Severino Marche, che in questo giro alla ricerca dei piccoli borghi ovviamente non rientrano fra le nostre mete. Andiamo spensierati sulla poco trafficata SP2, svoltiamo a sinistra ed iniziamo a salire. Carolina soffre un po’ la “terra ammucchiata” ed in alcuni punti Paolo, spesso al volante del suo amato bolide e profondo conoscitore di ogni suo piccolo comportamento, è costretto a mettere la prima. Uscendo da una curva ce lo ritroviamo lì in alto a dominare, abbarbicato su uno sperone roccioso, l’intera valle sottostante. Elcito sorge a 820 metri e già dal primo impatto sembra di fare un salto nel tempo, totalmente costruito in pietra era originariamente un castello di cui mantiene intatta l’atmosfera, infatti l’impressione è proprio quella di essere in pieno medioevo. A piedi saliamo la rampa di accesso alla fortezza, ci sono solo un paio di vicoletti su cui si affacciano pochi edifici, tutti completamente ristrutturati, integri e perfettamente abitabili, tutto appare pulito ed ordinato. I volti e la vita degli abitanti del piccolissimo borgo, tra gli anni 40 e 60 del secolo scorso, campeggiano sui muri che costeggiano la stradina principale, una commovente ed istruttiva mostra fotografica evidenzia, ai visitatori, come e quale era la vita in questa posto sem-idimenticato. Una minuta signora con un fazzoletto in testa esce da una porticina, ci saluta affettuosamente e si incammina innanzi a noi, poi ci fa vedere alcune foto in cui sono ritratti gli zii e le cugine. I suoi genitori sono nati qui, lei vive a Fermo ma torna nel luogo nativo per trascorre tutta l’estate, poi ci rivela che l’inverno è tanto duro qua, nevica e non ci sono servizi, anche se da poco più di un mese hanno aperto un bar-ristoro. La nostra visita, di certo la discrezione e il silenzio non sono il nostro forte, ha comunque attirato un po’ di attenzione. Un’altra anziana signora si affaccia dall’uscio curiosa e dopo i doverosi convenevoli anche lei ci rivela che vive qui solamente in estate e che sono circa una decina gli abitanti. Qui le stelle sono più vicine, recita lo slogan dell’associazione Pro Elcito che si adopera appunto per la salvaguardia e la conoscenza di questo incantevole luogo, ed in effetti sembra di toccarle con un dito. Costeggiamo le antiche mura e ritorniamo al parcheggio dove ci attende la nostra signora. Di fronte si trova l’unica attività presente, un punto ristoro ed alloggio, ma è chiuso, curiosiamo un po’ in cerca di qualcuno, i nostri stomaci brontolano e vorremmo conoscere chi è stato così pazzo, incosciente e coraggioso di fare una scelta del genere. L’attesa non è molto lunga, Lina arriva poco dopo e presto ci raggiunge anche il marito Franco. Con un bicchiere di ottimo rosso in mano ci facciamo una bella chiacchierata anche perché i coniugi sono persone di compagnia, allegri, socievoli e molto simpatici. Scopriamo così che non sono originari di questo luogo di cui si sono innamorati ma non vengono neanche da troppo lontano, vivono qui dal 2013 e sono praticamente quasi gli unici, insieme ad un altro paio di persone a trascorrerci quasi tutto l’anno. Da due mesi si sono imbarcati anche in questa folle impresa e ci raccontano delle difficoltà burocratiche e delle numerose spese che hanno dovuto sostenere. Restiamo perplessi, scelte del genere dovrebbero essere sostenute, aiutate anzi incentivate, perché qui come negli altri luoghi che abbiamo visitato o che incontreremo, già solo avere una sorta di bottega rappresenta la possibilità di rendere vivo il posto, di farlo continuare a sopravvivere e di avere un punto di riferimento e di richiamo per i visitatori.

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I nostri pensieri sono incredibilmente confermati dai fatti. Il Cantuccio vede arrivare prima una donna con tre bimbi che si informa per organizzare un pranzo e che nel corso della conversazione dice di esserci nata qui e che vorrebbe recuperare l’antica casa di famiglia ma i costi sono eccessivi, poi una giovane coppia di passaggio chiede informazioni, infine un ragazzo in moto che si ferma per farsi un bicchiere di vino con i gestori che conosce da tempo.

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E’ ora di andare, seguiamo le indicazioni di Franco, saliamo verso il monte San Vicino, poi la strada panoramica ci offre uno spettacolo indimenticabile, siamo sulla vetta e Carolina sembra dominare questa vastissima area di chilometri che possiamo osservare. In lontananza ci sono paesi, campi coltivati, boschi ed un lago, spengiamo il motore e, con solo il sibilo del forte vento che ci sballotta di qua e di là, restiamo in silenzio ad ammirare l’Appennino.

Da qui inizia la nostra marcia verso sud, passiamo la notte nella graziosa cittadina medievale di Urbisaglia dominata dalla possente rocca, il mattino seguente è tutto un saliscendi sui colli marchigiani sfrecciando, si fa per dire, nei comuni di Loro Piceno, Montappone, Monte Vidon Corrado fino a raggiungere la piana e visitare il bel borgo settecentesco di Servigliano, costituito da un quadrilatero con un asse che unisce le due porte laterali ed il viale centrale rappresentato dal corso a cui si accede dalla porta principale.

Momenti di preoccupazione ci assalgono quando Carolina improvvisamente singhiozza e poi si spenge. Proviamo a ripartire ma nulla, le nostre facce sconsolate sono un misto fra preoccupazione ed incredulità, ci raffazzoniamo meccanici ed ognuno di noi scende dall’auto e comincia a toccare quei pochi elementi del motore e della parte elettrica. Ancora più misteriosamente un sussulto e poi quel tipico tu tu tu tum della messa in moto, Carolina è di nuovo in pista.

Sant’Elpidio Morico è una piccolissima frazione di settanta abitanti del comune di Monsapietro Morico, in origine castelletto dello Stato di Fermo si distingue da lontano grazie alle due torri della chiesa davanti la quale parcheggiamo. Percorriamo velocemente i pochi vicoletti del nucleo antico che sono completamente deserti, eppure graziosi fiori abbelliscono le abitazioni, tutte comunque in perfette condizioni, voci di sottofondo rompono un naturale silenzio ma non incontriamo nessuno a cui chiedere delle discusse origini e dei due nomi che nel tempo hanno caratterizzato questo insediamento. Il calore è tremendo, scopriamo il capo a Carolina e mentre ce ne andiamo un bimbo si affaccia da una finestra, ci saluta con la manina e urla qualcosa, il rumore del motore copre le sue parole intanto il padre lo prende in braccia e le nostre mani escono dal tettino in segno di saluto.

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A Montedinove ci attende un’altra piacevole sosta, passeggiando nel centro storico si rimane affascinati dalla bellezza dell’architettura, dalle sue strette viuzze, dalla cinta muraria e dall’aspetto curato e ben tenuto. Il bel palazzo comunale in mattoncini rossi sorge sulla piazza principale, nel bar troviamo una signora ed un ragazzo, ci uniamo a loro per un aperitivo. La signora molto loquace inizia subito a conversare con noi. Si capisce al volo che deve aver vissuto e girato il mondo ed infatti è ritornata a Montedinove solo da 11 anni a godersi la pensione e dopo la perdita del marito, era andata via giovanissima ed aveva vissuto anche a Roma prima di trasferirsi a Milano. Ci racconta della sua incredibile vita, della collezione di trenini e macchine fotografiche ereditate dal marito ma anche del suo paesino. Concordiamo che è necessario mantenere vivi i luoghi, non farli spopolare ed abbandonare ma è una dura lotta come purtroppo dimostrano i numeri, di cinquecento residenti sono poco meno della metà quella che ci vivono realmente. Ad agosto soprattutto si organizzano eventi e feste e ci invitato assolutamente ad andare per la sagra delle mele rosa tipiche di queste terre. Sono incuriositi ed interessati dal nostro viaggio, il ragazzo ci aveva già notato mentre arrivavamo in paese, beh d’altronde una sventola come Carolina non passa inosservata.

Il nostro itinerario segue un strano zigzagare ed invece di andare diretti a sud ora procediamo verso ovest entrando nel vasto territorio comunale di Comunanza, composto da molteplici frazioni. Siamo incuriositi proprio da alcune di queste frazioni e così ci fermiamo in un bar del capoluogo per chiedere informazioni. Il barista alle nostre domande sul paese fantasma di Cossino da Piedi ci guarda un po’ perplesso e scettico, ci scruta quasi per capire chi siamo e cosa vogliamo, poi dopo aver rotto questa strana atmosfera chiama in aiuto un signore li presente. Il nuovo venuto ci dice così come arrivare a Cossinino, è così che lo chiamano, che dista circa 15 chilometri e che l’ultimo suo abitante è deceduto pochi mesi fa, chiediamo poi della frazione di Gesso che deve il nome al terreno gessoso e dove vivono una decina di persone ed infine di Tavernelle, antico covo di briganti, come con una battuta ci conferma lui stesso dicendoci “state attenti che so cattivi quelli”.

Abbiamo qualche difficoltà ma alla fine le informazioni fornite si rivelano corrette e toccata quota 800 metri compare un cartello con scritta bianca su sfondo azzurro e la dicitura Cossinino. La stretta strada sterrata non rende agevole l’avvicinamento e dopo due chilometri ecco apparire un primo nucleo di una quindicina di case, la strada gli gira intorno e procede in ripida discesa e per evitare problemi nella risalita parcheggiamo e ci incamminiamo. Questa deve essere la frazione di Cossino da Capo, dove potrebbe ancora vivere qualcuno ed in effetti alcuni edifici sono in buone condizioni e sembrano abitati con gli orti rigogliosi, ma addentrandoci per l’unica stradina sterrata e non ricoperta di vegetazione, segno che qualcuno deve passare di qua, dopo la piccola piazza troviamo altre case in totale abbandono e una folta vegetazione che copre i restanti camminamenti. Un fascino suggestivo sta avendo questo luogo su di noi ma non è che l’antipasto rispetto a quello che ci aspettiamo da Cossino da Piedi, la parte bassa del borgo e disabitata da lungo tempo che conserva ancora un ambiente medioevale e la cui leggenda vuole che fu l’ultimo rifugio dell’Ordine cavalleresco dei Templari. Improvvisamente, mentre emozionati scendiamo verso l’insediamento, una strana brezza si solleva, un odore di acqua riempie le nostre narici, i cielo si incupisce ed ingrigisce, facciamo retromarcia anticipando di un soffio la bufera che si scatena su di noi. Sconsolati e tristi, restiamo dentro il nostro cinquino in attesa di una schiarita, i piccoli e lenti tergicristalli non possono nulla contro la mole d’acqua e per non restare impantanati ritorniamo sulla strada principale lasciandoci alle spella Cossinino.

La quiete dopo la tempesta arriva non molto tardi permettendoci per fortuna di ammirare il magnifico panorama che la SP 86 ci offre con sullo sfondo il monte Vettore che domina i Sibillini ed i Monti della Laga ed il Gran Sasso dall’altra.

E’ ora di trovare una sistemazione per la sera, vorremo andare a visitare il borgo di Rocchetta che da paese fantasma si è trasformato in albergo diffuso ma l’unica strada che arriva fin là è interrotta a causa di frana e non ancora ripristinata, un peccato veramente. E così ci avviciniamo ad Ascoli dirigendoci nella frazione di Castel Trosino, che come è facile intuire, è un vero e proprio castelletto con tanto di ponte di accesso e mura difensive. Sorge su uno spero di roccia sopra la città e il discreto via vai di visitatori evidenzia che la sua bellezza è sicuramente rinomata, in effetti sembra di essere tornati al tempo di re Artù e sentire gli echi delle spade che si scontrano.

Claudio e Giuliano hanno raccontato le tappe del loro viaggio anche sulla pagina FB Viaggi Lenti. Affacciatevi a birciare. Noi proseguiremo nel proporvi le loro storie di viaggio con Cinquino sabato prossimo.