Testo e foto di Francesco Sandri

“Nästa station: Mellerud. Next station: Mellerud”. Scendo dal treno un gradino alla volta. L’aria fresca è quasi uno schiaffo in faccia. Deserta, la stazione sonnecchia nel suo letargo iniziato da poco, mi volto a sinistra. L’unico abitante dei binari è un vagone arrugginito carico di tronchi d’abete. Sono tagliati di fresco. Il loro profumo inonda di resina la noia di questo pomeriggio d’ottobre. Mi annuncia che sono arrivato, che sono nel posto giusto.

Ci sono volute sei ore per giungere fino a qui, il minimo indispensabile per uscire dalla città con il corpo e con la mente. Abbastanza per dimenticare il groviglio di edifici, l’azzurro ossidato delle cupole di rame, il silenzio delle piste ciclabili e i pomeriggi tra i muri dell’università. Copenaghen è destinata a scomparire dai pensieri questa settimana. Ora sarà solo Dalsland.

Il nome di questa regione porta già a viaggiare in terre lontane, conosciute da bambino in qualche fiaba. Mi tornano agli occhi immagini di foreste dense e mute, quelle che perdono i loro confini tra le brume del nord, di creature timide nel sottobosco, di incantesimi, di animali, di cacciatori. Poi un cammino; lunga e tortuosa linea di 80 chilometri che si apre nel muschio. E in un momento non sono più bambino che sogna né cittadino che fugge, ma pellegrino con lo zaino che preme sulle spalle e una via chiamata Pilgrimsleden da seguire.

Sembra quasi che l’autunno avanzi al ritmo dei miei passi. Le ultime case di legno scompaiono in poche curve. Rimane solo un bosco acceso di foglie cadenti. Tutta la comunità vegetale di quest’angolo di Svezia è agghindata per l’occasione, ultimo slancio prima del sonno invernale. Ci sono il pioppo, dalla chioma che sanguina senza essere ferita, e la betulla, elegante col suo fusto bianco e l’oro in testa. C’è il rovere, intrigo di rami contorti e fogliame indeciso se cadere o no. E infine l’abete. Il suo verde profondo e intatto non riesce a nascondere la malinconia che lo accompagna nel cambiare stagione. Presto sarà l’unico abitante sveglio in queste foreste imbiancate.

Camminando tra i tronchi che conosco da sempre, punti fermi in un mondo in bilico, mi sento meno solo; protetto da una casa senza muri né soffitti, accompagnato da presenze rassicuranti. Una casa che porta il silenzio dentro a chi sa ascoltare il silenzio fuori. E i boschi del Dalsland sono estremamente silenti. Coperti da una spessa spugna di muschi e licheni, assorbono ogni rumore. Perfino i battiti del cuore, che accelera nelle brevi salite, si fanno delicati e soffusi. L’unico suono che ha il permesso di esistere è il canto d’autunno, la foglia che cade ovattata, l’applauso tremulo di una chioma scossa dal vento. Silenzio.

Anche se viene difficile crederlo, non ci sono solo foreste infinite nel Dalsland. Tra il verde ogni tanto scorre una strada solitaria. Di solito porta a qualche paese di cui è difficile intuire l’esistenza prima di arrivarci. Rarità geografiche e antropologiche. Una di queste è il Not Quite: antica fabbrica di carta sorta in mezzo al bosco e trasformata da vent’anni in laboratorio sociale, artistico e culturale.

È bastata la follia di Jessica e di altri artisti vagabondi per far risorgere dall’oblio l’enorme complesso di mattone rosso. Oggi per le sue strade si può sentire mescolarsi l’odore acre delle officine dei fabbri con quello atavico del pane appena sfornato. Vecchi mestieri che cercano nuovi equilibri in questa dimensione parallela, di cui Jessica sembra essere la guardiana. Tuta da lavoro, occhi grandi appena nascosti dalla frangia rossa. Non le sembra vero di ricevere visite anche in questo giorno soleggiato d’ottobre. Col suo entusiasmo mi conduce per mano tra incudini e macchinari arrugginiti, per poi lasciarmi libero di vagare nel mondo incantato del museo di ceramiche. «Basta che chiudi la porta dietro di te quando vai via». La fiducia nei pellegrini è dura a morire.

Oltre ai boschi e ai loro abitanti ci sono altri due aspetti che rendono il Dalsland una terra magica. I laghi e le stelle; che da queste parti sono quasi la stessa cosa. Visti dall’alto, i laghi punteggiano la mappa della regione di infinite costellazioni.

È impossibile pensare di contarli tutti. Col calar del buio si riempiono poi del riflesso degli astri. Perdono la loro forma liquida e diventano cielo, come il cielo diventa un grande lago nero in cui specchiarsi. Volendo, si potrebbe nuotare fino alla luna stanotte.

Acque scure e disabitate, la loro superficie si increspa in una pelle d’oca appena accennata con la brezza del mattino. Sembrano percorsi da un brivido, dal ricordo della carezza notturna appena svanita. Rimane solo la bruma a danzare sul pelo dell’acqua.

E vicino ai laghi senza nome spesso si può incontrare un vindskydd. Manna dal cielo per il pellegrino serale, questi ricoveri di tronchi e semplicità spuntano come funghi nella boscaglia, proprio quando i piedi sono troppo stanchi per continuare. Al loro interno una stufa di ghisa diventa protagonista della notte. Bruciano dentro di lei le parole che si vorrebbero dire, ma che suonerebbero superflue alla fine di una giornata piena di passi. Bruciano gli impegni, la fretta, i pensieri. Un filo di fumo li porta lontano. Li disperde nel freddo notturno, anche loro assorbiti dalla spugna umida del sottobosco.

In tempi antichi i pellegrini diretti alla tomba di Sant’Olaf, in Norvegia, percorrevano questi stessi sentieri, mangiavano gli stessi mirtilli, si tuffavano negli stessi panorami. Lungo la via si fermavano a Edsleskog (ultima mia tappa prima di terminare il cammino ad Åmål) per ricevere benedizioni e indulgenze. Credo che io non ne avrò bisogno. Se il mio peccato recente è quello di aver abbandonato i boschi alpini per una città nordica, la mia redenzione sono stati i giorni trascorsi nel verde intenso di Svezia. Ora sento di nuovo la coscienza pulita. Sono tornato la creatura silvestre che ho scoperto di essere nei mesi di isolamento montano, così lontani nel tempo e vicini alla memoria. Il corpo indolenzito e freddo torna a prendere coscienza di sé stesso. Le mani piene di tagli si ricordano per cosa sono state create. Sono di nuovo vivo. Sono di nuovo io.