Testo e foto di Manuel D’Antonio

Le parole suonavano incomprensibili alle nostre orecchie. I suoni, per la maggior parte dei presenti, non avevano alcun senso. I temi trattati nella conversazione erano già di per sé piuttosto seri, e la difficoltà comunicativa contribuiva in modo non indifferente ad aumentare il peso di quel momento. Le donne non parlavano quasi neanche una parola di birmano, quindi figuriamoci di inglese. Ogni domanda che volevamo formulare passava dunque per vari intermediari. Una prima persona traduceva dall’inglese al birmano. Una seconda dal birmano alla lingua kayan. Stessa cosa, ma percorso inverso, per ricevere le risposte.

La difficoltà nel comunicare non si limitava alle sole differenze di linguaggio, ma c’era una difficoltà molto più profonda. Era una difficoltà diversa, una difficoltà dell’animo, dovuta dal fatto che parlare della propria storia passata causava in quelle donne un dolore inimmaginabile. Ogni domanda era dunque formulata con cautela, cercando di non riaprire vecchie ferite o di scavare troppo a fondo in quelle che non si sono mai chiuse.

Le donne appartenenti alla popolazione kayan, conosciute anche come padaung, o più tristemente come “donne giraffa” a causa degli ornamenti che indossano intorno al collo, sono infatti le protagoniste di una storia triste e dolorosa. Originarie dell’odierno Myanmar, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 del ‘900 furono costrette a fuggire dal paese a causa di un conflitto con il governo militare dell’allora Birmania.

Non sapendo bene dove andare, e non avendo abbastanza tempo a disposizione per organizzarsi, cercarono aiuto nella frontiera più vicina, quella con la Thailandia. Vennero lì istituiti diversi campi in cui i kayan trovarono rifugio, ed alcuni di essi furono dedicati esclusivamente alle donne con gli anelli intorno al collo. Con il passare del tempo gli accampamenti temporanei assunsero sempre più uno status permanente, trasformandosi in veri e propri villaggi situati al confine tra i due stati, e iniziarono a trovare il proprio sostentamento nel campo che al momento sembrava il più facile: il turismo.

Ben presto i villaggi delle “donne giraffe” divennero una delle attrazioni più visitate del nord della Thailandia, e le foto delle donne iniziarono a fare il giro del mondo. È stato uno dei purtroppo frequenti casi in cui l’economia ed il profitto assumono un’importanza maggiore del rispetto dell’essere umano. Gli introiti derivanti da un turismo tutt’altro che etico hanno portato alla decisione per cui alle donne padaung non è permesso ormai vivere in nessun posto della Thailandia, ad eccezione dei villaggi creati appositamente per loro. Il passaggio da rifugiate politiche ad attrazione turistica è stato breve.

Le sensazioni provate arrivati alla soglia di uno di questi villaggi, nei pressi di Pai, sono state sconcertanti. Una biglietteria all’ingresso, un recinto e un grande cartellone colorato con l’immagine di una delle donne creavano l’ingresso di quello che sembrava un parco giochi. Un parco giochi dove le montagne russe sono sostituite dalle vite di esseri umani. Abbiamo solo intravisto un paio di loro passeggiare tristemente tra capanne di bambù create a dovere, e non siamo riusciti ad andare oltre.

Ma con la caduta del regime militare birmano e la condizione di relativa stabilità che ne è seguita, alcune di queste donne hanno scelto di fare un passo indietro, e di tornare in Myanmar, tra le stesse montagne da cui erano in precedenza fuggite. Ed è proprio indicando un gruppo di verdi montagne in lontananza che la donna ci risponde quando le chiediamo di dove fosse originaria. Quando cerchiamo di saperne di più sul motivo che l’ha portata a valle, preferisce non dire nulla. Si limita a farci sapere che si vive molto meglio, lì dove si trova ora.

La sua casa si trovava nei verdi sobborghi di un villaggio non lontano da Loikaw, nella parte centrale del Myanmar, non lontano dal più noto lago Inle. E non c’erano recinti lì intorno, né biglietterie. La donna viveva con le sue figlie e le sue nipoti, e condivideva il villaggio con decine di persone, alcune con gli anelli e altre senza. Lì le “donne giraffa”, le stesse divenute altrove attrazioni turistiche, vivevano nel modo a loro più consono. Vivevano, cioè, come esseri umani.

Si giunge lì allontanandosi solo di qualche chilometro dal centro di Loikaw e dirigendosi verso le montagne, dove le case cominciano a diradarsi sempre di più, e a trasformarsi da costruzioni in cemento a più modeste capanne in bambù, spesso sorrette da palafitte. Le strade in asfalto si fanno sempre più rare lasciando spazio a sentieri sterrati in terra rossastra che si inerpicano sulle verdi montagne.

E lì le donne con gli anelli al collo vivono la loro vita di tutti i giorni insieme a tutti gli altri abitanti. Alcune sono sedute sulla veranda ad osservare il paesaggio e la gente che passa, come qualsiasi signora anziana in qualsiasi altra parte del mondo. Ce ne sono un paio in motorino, molte sono al mercato a vendere o a fare acquisti.

In questo paesaggio quasi idilliaco alcune delle donne Padaung ci hanno accolto nelle loro case, offrendoci una tazza di tè e raccontandoci un po’ di loro. Ed è seduti sul pavimento di legno della veranda della sua casa che un’anziana signora decide di parlarci un po’ di lei. Ci dice di avere circa 70 anni, ma non è in grado di dirci la sua età precisa. Sono realtà, quelle, in cui molto spesso non si porta il conto del tempo che passa.

Aveva messo il primo anello al collo quando aveva solamente 7 anni e aveva continuato ad aggiungerne per tutta la vita. Ora ne aveva addirittura 27, e questo ne fa una delle donne Padaung ancora in vita col maggior numero di anelli al collo. È orgogliosa dei suoi anelli, quella donna di cui curiosamente non scopriremo mai il nome. Eravamo così presi dalla conversazione da aver dimenticato di chiederlo.

Li porta ancora oggi con fierezza, non li toglie mai neanche per andare a dormire. Il suo collo è talmente pesante che l’unico modo che ha per distendersi è aiutarsi con una tavoletta di legno che ne sostiene il peso. La donna è talmente abituata agli anelli che non sarebbe in grado di immaginare una vita senza di essi. Ma non sono né un peso né una vergogna per lei.

L’usanza di mettere anelli intorno al collo si sarebbe originata come una forma di difesa da parte degli uomini. Ritenendo le donne della propria etnia le più belle del paese, gli uomini dei vari villaggi diedero vita a questa consuetudine per impedire agli altri di impadronirsi delle proprie donne. Per i Kayan infatti gli anelli, così la forma apparentemente allungata del collo a cui danno luogo, sono segno di grande bellezza, ma è il contrario per tutti gli altri. Maggiore il numero di anelli, maggiore dunque la bellezza della donna.

Al giorno d’oggi le ragazze non vivono più nei villaggi, molte di loro scelgono di andare a studiare in città, decidono di essere libere di vivere la propria vita come chiunque altro. Una libertà che non si può né si deve arrestare, ma che porta alla perdita di molte tradizioni secolari. Le giovani padaung non si sentirebbero infatti accettate se continuassero a indossare i loro tipici ornamenti, e hanno così deciso di lasciarseli alle spalle.

In una società che spinge sempre verso l’omologazione, il portare degli anelli al collo darebbe vita ad una differenza. Il diverso fa paura, e le giovani donne sarebbero costrette a sguardi di disapprovazione o a prese in giro costanti. La voglia di vivere in modo sereno ha purtroppo avuto una forza maggiore del legame con le proprie tradizioni. Ma sono da biasimare quelle che cedono al progresso, o il progresso che le costringe a cedere?

Ringraziamo la donna per l’ospitalità e le auguriamo il meglio. Non deve essere facile sapere di essere l’ultima portatrice della propria tradizione. Dal momento in cui era nata quello era tutto ciò che vedeva, tutto quello che sapeva. Ma il mondo è andato più veloce di lei e non ha potuto arrestarlo. Tra poco tempo tutto quello che rimarrà delle “donne giraffa” saranno i racconti di chi ha avuto la fortuna di incontrarle.

Con gli occhi languidi e un sorriso che mostra sui denti l’effetto di decenni passati a masticare foglie di betel, la donna ci saluta. Ma prima, insiste per farci ascoltare una canzone suonata da uno strumento a corda simile ad una chitarra. E così, ci dà il suo ultimo commiato.