Testo e foto di Isabella Mancini

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Furono gli inglesi a portarlo in Africa: cercavano nuove terre per la coltivazone di un prodotto la cui vendita era in crescita. Il tè è entrato dalla porta del Sudafrica, dove l’orto botanico di Durban ospita le prime piantine provenienti da Londra, In Tanzania e Kenya arrivò all’inizio del ventesimo secolo. Il tè africano è nero ed è il Kenya ad attestarsi al quarto posto vendite mondiali dietro ad India, Cina e Ceylon.
E’ un vero e proprio rituale di accoglienza in tutto il continente. I senegalesi lo chiamano Ataya e tutto parte da una piccola teiera smaltata e colorata. Dentro si mettono a bollire le foglie della pianta. Mentre il carbone arde, la teiera sbuffa, si chiacchera al fresco sotto un albero aspettando che tutto sia pronto per poi versarlo dall’alto in piccoli bicchieri stretti, lo si versa da un bicchiere all’altro e la schiuma densa fa risalire il gusto dello zucchero. Il primo tè si lava (la prima bollitura serve per pulire le foglie ma, essendo anche la più ricca di teina, si può scegliere di berlo oppure no) e la seconda bollitura finisce invece nei bicchierini. Non c’è temperatura che tenga: si beve prevalentemente tè (almeno l’acqua è bollita e se avesse strani aromi il sapore del tè e dello zucchero compenserebbero).

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