Testo e foto di Francesco Sandri

Branka non perde tempo a chiedere. Due zollette di zucchero per tazzina vanno più che bene per il caffè che ha appena finito di preparare. Lo appoggia sul bancone e mescola in silenzio il nero intenso, quello che verso il fondo assumerà la consistenza di una crema polverosa in cui potrà leggere il destino di chi l’ha bevuto.

Sorridendo, invita a prendere posto a sedere nei 10 metri quadrati del suo locale in un’anonima via di Zemun. Un tempo fu il confine tra l’impero asburgico e quello ottomano, mentre oggi è stata raggiunta e inglobata dai palazzoni socialisti di Novi Beograd.

I “blocchi”, così vengono chiamati gli alveari di cemento senz’anima che fanno da cintura al centro storico e turistico, si ripetono in stampi uguali per chilometri, lasciando poco spazio a fantasie e panorami. Giardinetti asfittici cercano di separarli con un po’ di verde, ma vengono anche loro sommersi dallo tsunami grigio dell’edilizia popolare. È facile immaginare come questi luoghi finiscano per essere le culle dei movimenti identitari che ancora oggi imbruttiscono le guance arrossate sul volto di mamma Serbia, spaziando dalla militanza ultrà al nazionalismo senza limiti e pudore che arriva perfino a negare i fatti tristemente famosi di una ventina d’anni fa.

Ma, nonostante ciò, è la premura di Branka nel servire i clienti ciò che meglio rispecchia lo spirito della capitale: quel crocevia di strade tra est e ovest che non fa mai mancare nulla e lo presenta in maniera spontanea e invitante, come il profumo di una pekara aperta fino a notte fonda o un mercato reso nebbioso dalla condensa dei respiri mattutini. Beograd sembra accogliere a braccia aperte e, anche non capendo la lingua che parla, riuscirà lo stesso a portare i suoi nuovi amanti verso ciò che vanno cercando tra le vie di questa città in fermento.