Testo e foto di Enrico Cerrini, foto di Hua Wang

Come molti altri, io e Hua abbiamo deciso di visitare Expo. Il giorno in cui siamo entrati nella Fiera di Rho, è stato registrato uno dei record di affluenza, circa duecentosessantamila persone. Troppe. Per questo, abbiamo dovuto prenderla con filosofia. In particolare, abbiamo vestito i panni dei visitatori tragicomici, coloro che, senza alcuna intenzione di effettuare estenuanti code, si armano di adattabilità e di curiosità. Ci siamo quindi addentrati in un percorso che ci ha condotto a visitare una miriade di luoghi e persone colorate, alcune simpatiche e altre no, il tutto in maniera confusa, sconclusionata, alla ricerca di una profondità e di un senso che non c’è, proprio come in ogni film di Wes Anderson, da ”I Tenembaum” a “Grand Budapest Hotel”.

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Come nel “Le avventure acquatiche di Steve Zissou”, iniziamo con un obiettivo preciso, che nel nostro caso non è uccidere lo squalo giaguaro ma visitare il maggior numero di padiglioni possibile. Sappiamo che il momento migliore è la mattina, appena entrati e decidiamo di concentrarci sulla Cina. Dopo una breve fila, entriamo in un luogo ben arredato che vuole mostrare alcune caratteristiche della tradizione e del cibo cinese. Interessante, ma non certo avvolgente. Raggiungiamo quindi il mare di luci led che dovrebbe illuminarsi in modo da mostrare numerosi tipi di campi di cereali, pubblicizzato in Cina come una meraviglia del progresso tecnologico orientale. In realtà è mattina, la luce del sole offusca i led, lo spettacolo è ben fatto ma non coinvolge, rimane distante. L’hostess ci indica un video sul capodanno cinese, ma è anche peggio. Inizia con tre minuti di discorso di un rigidissimo Xi Jinping, che ricorda i messaggi di fine anno del nostro Presidente della Repubblica. Nel cartone animato successivo, un’anziana signora rispolvera la foto di famiglia dove sono ritratti i tre nipoti che vorrebbe rivedere nel giorno di capodanno. Uno di loro è un cuoco e non potrà tornare perché impegnato, gli altri invece riabbracceranno la nonna: la ragazza è una ricercatrice agroalimentare, mentre il secondo fratello è il famoso pianista Lang Lang. Usciamo perplessi.

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Vicino alla Cina si trova il padiglione della Thailandia, che alle 11 di mattino ha già due ore di coda. Pensiamo di evitarlo, per concentrarci su quelli migliori, come l’Austria. Prima però vogliamo prenderci una pausa nel cluster del caffè. Entriamo in Etiopia, dove, a fianco del tipico arredamento etiope, una ragazza che indossa vestiti tradizionali serve il caffè ai visitatori. Prima di bere lo scuro liquido, siamo curiosi di visitare gli altri cluster, ma sono molto deludenti: quelli di Rwanda e Yemen paiono mercatini di strada, mentre il Kenya è un bar con un televisore che proietta le immagini di Obama da giovane. Torniamo in Etiopia dove ci gustiamo una specie di acqua sporca in un’atmosfera piacevole, poetica, per poi dirigerci verso l’Austria, prima di scoprire che il padiglione è chiuso: troppa fila. Quello a fianco, il Cile ha invece una coda di due ore e mezza.

Delusissimi, ci approcciamo al padiglione degli USA che pare avere meno fila. Vista da fuori, la struttura è molta bella, la bandiera americana con piatto e posate stilizzate al posto delle classiche stelle appare calorosa e piacevole. Il bosco verticale che si staglia sulle pareti è affascinante. Durante la breve coda, Barack Obama intrattiene lo spettatore affermando qualche banalità sulla sostenibilità alimentare e ricordando che nel 2050 saremo 9 miliardi di persone a vivere sul pianeta. Come Xi Jinping, ha ben poco da comunicare, ma al contrario del leader cinese lo fa in maniera fresca e solare. All’ingresso capiamo che il discorso di Obama è praticamente l’unica cosa da vedere. Nel primo piano ci sono solo alcuni video che trattano la sostenibilità alimentare, mentre il secondo è solo una terrazza con bar. Ci aspettavamo che il padiglione americano fosse disconnesso e superficiale, non certo semivuoto.

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Vagando nella via principale non possiamo certo incontrare banchi di granchi luminosi che salgono in spiaggia per deporre le uova, ciò nonostante possiamo assistere a ben strani fenomeni. In particolare, il padiglione della Svizzera ha organizzato un gigantesco raduno di suonatori di corni delle Alpi, il tipico strumento musicale a fiato, lunghissimo e apparentemente pesantissimo. I suonatori, vestiti in stile elvetico, si apprestano a suonare una sinfonia jodel in onore all’evento milanese, mentre nel pomeriggio si svolgerà il più grande raduno di corni alpini della storia, presso Piazza Duomo. Sul palco si alternano personaggi improbabili che annunciano l’evento nelle tre lingue principali della Confederazione Elvetica. Quando il coro inizia a suonare, possiamo scordarci la musica calma ma positiva dello jodel austriaco, inizia invece un suono tetro e profondo che non può essere tollerato per più di dieci minuti.

Intanto si è fatta ora di pranzo e proviamo a racimolare un po’ di cibo nel settore dei tuberi, dove si raggruppano stati come Bolivia e Venezuela. Le atmosfere sono interessanti, lo schermo del Venezuela è molto accattivante, ma non troviamo cibo. Mentre continuiamo nella nostra ricerca attraversiamo il padiglione dell’Iran, dove la proiezione è visibile senza attendere ore. Appena entrato in sala, alzo e gli occhi e vedo un volto noto: Patrizio Mecacci, il mio vecchio segretario regionale quando militavo nella Sinistra Giovanile, una delle poche persone che posso considerare come mio mentore politico. Nella migliore tradizione tragicomica, sbuca così, senza preavviso un personaggio amico nel bel mezzo del disastro. Ma che fare? Non è facile raggiungerlo e parlarci senza disturbare decine di persone. Mi limito ad un sorriso imbarazzato e finisco per salutarlo appropriatamente solo scrivendo queste righe.

Tra un rimbalzo e l’altro ci troviamo di fronte ad una specie di mensa che scopriamo essere il ristorante della Turchia. I prezzi sono oggettivamente fattibili e decidiamo di metterci in coda. Mentre osservo la mappa, il tipo dietro di me prova a scrutare scuotendo la testa. Mi chiede cosa sono riuscito a visitare e rispondo “Cina e Stati Uniti”. Mi risponde che sono stato bravissimo, lui non è riuscito a visitare niente e mi chiede dov’è il Belgio, prima di dover calmare le smanie di un bambino bizzoso. Ci accontentiamo dello scarno ma decente pasto prima di capire che il padiglione della Turchia si svolge completamente all’esterno. C’è ben poco da vedere, qualche spezia, qualche immagine, qualche reperto archeologico e niente di più, ma diventa subito il mio padiglione preferito. Passerò il resto del giorno a pensare che l’unica nazione che ha capito come strutturare la propria esposizione è la Turchia, solo perché ci ha evitato una fila chilometrica per vedere oggettivamente poco.

Abbiamo capito che è praticamente impossibile entrare nei padiglioni principali e ci rechiamo in quelli minori, i cluster. Nella zona delle aree desertiche, la Mauritania ha posto un cammello di plastica all’ingresso mentre alcune donne dipingono le mani di turiste curiose con la loro miscela di henné. La Giordania ha invece costruito un vero e proprio capolavoro, un monumento all’infingardia e alla noncuranza. L’interno è infatti un kebabbaro male addobbato, con un ragazzo che vende ampolle piene di sabbia del deserto. A rendere tutto ancor più ridicolo, uno dei kebbabari sfoggia una vecchia maglietta dei Linkin Park. Pensiamo di aver toccato il fondo, ma per questo c’è ancora tempo. Il padiglione della Palestina assomiglia a quello della Giordania, ma una piccola mostra fotografica tenta di dare un significato a tutto, insieme ad alcune testimonianze della resistenza contro l’occupazione israeliana. Degli altri padiglioni vicini, solo il Mali risalta grazie a due personaggi che suonano il djembe. Per il resto, sono poco più di mercatini.

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Nella sezione dedicata al mare e alle isole, risalta solo la Corea del Nord con le donne che indossano con leggerezza i vestiti tradizionali, mentre nelle Maldive non si nota nessun personaggio locale. Un unico padiglione raggruppa le isole caraibiche, le quali hanno portato uno stereo che sprizza musica allegra ed espongono bottiglie di rum. La Dominica vince l’operazione simpatia mostrando una mappa che segnala quale stato è la Dominica e quale la Repubblica Dominicana. Entriamo nel settore Mediterraneo attraverso l’Algeria, la quale ha ricreato le sue atmosfere grazie ad uno schermo circolare e un ristorante che indubbiamente guadagna bene. Malta ha posto al centro un grosso nido d’ape che riesce a dare un buon effetto scenografico, mentre la Serbia possiede un grande spazio semideserto in cui si osserva una ruota gigante attaccata al soffitto e alcuni ragazzi che preparano il caffè. A fianco, troviamo il più grande tesoro e il più grande disastro della giornata: i minuscoli padiglioni di San Marino e Albania.

San Marino è appunto come Steve Zissou, personaggio che anche se privo di un cuore caldo e avvolgente, riusciva ad affascinare gli spettatori. Il soffitto è fatto di posate di plastica illuminate di blu, nello spazio stretto emergono piccoli gadget che ricordano la cucina e sulla parete opposta all’ingresso si staglia un maxi schermo. All’uscita si può gustare un caffè sanmarinese che può fare tendenza malgrado non sia diverso da quello italiano. Il tesoro del padiglione è il video: non è particolarmente profondo ma è una lezione di come si pubblicizza una nazione. Ci mostra infatti cos’è San Marino, quali sono le sue bellezze artistiche, le sue qualità gastronomiche, le sue eccellenze tecnologiche il tutto condito con richiami a cavalieri medievali. Quest’orgia di informazioni, storia e colori non rende lo spettatore maturo ma lo rapisce in un trip mentale emozionante.

Se San Marino invoglia a partire per visitare il micro stato, l’Albania è l’esatto opposto. Visto che la nazione delle aquile è il nostro prossimo viaggio programmato, ci piacerebbe visitare il padiglione malgrado una coda non troppo corta. Man mano che andiamo avanti, vediamo che la fila si protrae ben oltre l’ingresso fino a giungere ad un’altra porta. Che c’è in quella porta? Perché così tante persone sono in fila per affacciarvisi mentre la sala principale appare completamente spoglia? Continuiamo la fila nella sala, caratterizzata da alcune immagini, piccoli video ed una scultura che rappresenta un mulino. Tutto qui. Allo steso tempo, una delle due ragazze prova ad intrattenere il pubblico con scarsi risultati. Infine, entriamo in una stanzina, dove troviamo un televisore non particolarmente grande che mostra un video promozionale, con scarsi riferimenti al cibo e che potrebbe tranquillamente essere visto su youtube. Per completare il quadro, al momento di uscire, l’hostess si scusa perché nella stanzina non funziona l’aria condizionata.

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Facciamo un salto in Tunisia dove ci accoglie un video di una ragazza che cerca l’acqua nel deserto, per poi raggiungere l’Albero della Vita, il simbolo stesso di Expo 2015. L’albero ci delizia con le sue fontane danzanti e l’opera in sottofondo. Non è un capolavoro, ma rientra bene nel gioco perché è una struttura semplice e scansonata, capace di attrarre turisti e di sedurre senza prendersi troppo sul serio. Subito dopo, visitiamo il padiglione del Montenegro, suadente grazie alle stalattiti pelose che piovono dal soffitto, e l’anonimo padiglione greco. Passando vicino al padiglione dell’Italia notiamo l’interminabile coda che l’accompagna. Appare come qualcosa di assurdo e irreale. Nel girovagare in quella marea di persone, notiamo che la terrazza tedesca è visitabile senza coda, e così ci facciamo un salto. La vista è gradevole e notiamo alcuni cartelli che descrivono le regioni tedesche dal punto di vista gastronomico, ma non ci soffermiamo più di tanto.

E’ quasi ora di cena, e decidiamo di anticipare la massa mangiando un kebab al padiglione giordano. Peccato che sia pochissimo e abbiamo ancora fame. Ci ricordiamo che la Mauritania possiede un piccolo ristorante e ci mettiamo in coda prima di alzare gli occhi e leggere: “riso vietnamita”. Confuso, osservo che in cucina ci sono solo persone dal volto asiatico: la Mauritania ha subappaltato il ristorante al Vietnam. Hua mi chiede se voglio mangiare lì, rispondo con un secco e no e ci dirigiamo in Olanda dove avevamo notato alcuni chioschi, compreso quello delle patatine. In realtà, il padiglione Olanda non esiste: c’è solo una piccola istallazione con un gioco di specchi oltre che i vari chioschetti alimentari, come se l’unico obiettivo fosse quello di raccogliere un po’ di soldi. Mentre mangiamo le deliziose patate fritte, la Francia ci assorda con un dj che mixa musica da discoteca.

Ci accorgiamo che qualcosa sta cambiando. Sono ormai le 19 e 30, e la fila chilometrica sta scemando. Tra i chioschi olandesi e il dj francese, il padiglione del Vaticano è ormai visitabile in pochi minuti. Vi troviamo una piccola mostra fotografica che sviluppa il tema alimentare abbastanza bene e un bell’arazzo dipinto dal maestro fiammingo Rubens. Sorpresi dalla facilità di ingresso, proviamo a visitare tutto quello che possiamo. Facciamo un giro nel misero padiglione polacco, dove la mancanza di idee si nota fin dalla frase che lo campeggia: “Abbiate ogni speranza o voi che entrate”. E’ impreziosito solo da un paio di sculture di Igor Mitoraj e da un trenino fatto di cioccolata. Sfortunatamente, molti padiglioni stanno ormai chiudendo, soprattutto quelli più visitati come il Kazakistan.

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Ci avviciniamo allora al vitalissimo padiglione argentino. Notiamo una grande fila che si dipana soprattutto sulle scale a chiocciola che conducono dentro ad un silos. Le scale contornano un palco dove un gruppo di ragazzi si sta esibendo. Lo show è una delle cose migliori viste in giornata: i ragazzi ballano, suonano e intrattengono il pubblico come scatenati. I loro strumenti sono chiaramente materiali riciclati come vecchi bidoni dell’immondizia, il messaggio non vive in una trama ma nella forza visiva ed emotiva dell’esperienza. All’apparenza non fanno niente, ma lo fanno in modo impeccabile, coinvolgendo completamente lo spettatore in quel caos latino, fino a recitare lo slogan azzeccato “Argentina te alimenta”. Il silos, al contrario, è deludente: una piccola opera rappresenta l’immigrazione europea nel nuovo continente e sulle pareti si nota un video che inizia mostrando la produzione di granturco e termina con la trovata kitsch della pioggia di mais.

Ritorniamo in Asia per visitare Malesia e Thailandia, ma appaiono come due nazioni che vogliono solo mostrare quello che stanno diventando senza ricordarsi chi sono. L’approfondimento sul cibo è delegato a video d’impatto poco riusciti, senz’anima e che vogliono principalmente mostrare il successo economico delle due tigri asiatiche. Se la Thailandia cerca di omaggiare il proprio re, monarca di lungo corso sempre in prima fila per favorire l’agricoltura, la Malesia riproduce una piccola giungla caratterizzata da brutti ologrammi degli animali che la popolano. Al contrario, il Brasile ha avuto la geniale idea di montare una grande rete sulle piante della foresta amazzonica. La rete è pedonabile e attira frotte di turisti, peccato che quando arriviamo sia già chiusa. Facciamo così un giro all’interno del padiglione che è piuttosto scarno: vorrebbe affrontare alcune tematiche importanti come la scarsità di cibo e gli sforzi del governo nella sua distribuzione. Non è certo un capolavoro, ma rispetto alle nazioni asiatiche vuole mostrare ciò che è il Brasile, anziché ciò che vuole essere. Non c’è alcuna corsa alla potenza, alla modernità e l’aria si fa più respirabile.

La Repubblica Ceca ha avuto la buona idea di mettere un bar con piscina dove si staglia una grossa scultura che ricorda lo stile di David Cerny, la quale rappresenta un cardellino che si trasforma in automobile. L’interno è l’essenza di questa nazione: divisa fra la birra e la volontà di mostrarsi profondi e intelligenti con il minimo sforzo. Le sedie fatte con vecchie bottiglie di plastica vanno in questa direzione, lo stesso vale per i boschi sensoriali e i led che pendono dal soffitto. Di fronte, il Nepal è preso d’assalto perché uno dei pochi rimasti aperti. Facciamo un po’ di fila per entrare nella riproduzione di un tempio buddista, interessante ma molto kitsch, con tanta plastica e poca sostanza, fatta eccezione per la musica in sottofondo che riesce ad essere rappresentativa di un certo senso di religiosità.

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Entriamo velocemente nel padiglione del Sudan, che malgrado sia tra i principali non è altro che un mix tra un kebabbaro e un negozietto etnico, e guardiamo da fuori il colorato padiglione vietnamita. Al secondo piano scorgiamo una delle trovate più intelligenti di tutta Expo, ovvero il negozio di souvenir. Rispetto agli altri paesi del sud-est asiatico, il Vietnam non ha investito in mirabolanti filmati sullo sviluppo del paese, ma in un’immagine più soft della nazione che è ben rappresentata dai cappelli tipici. Questi, venduti a basso prezzo, caratterizzano l’intera Expo grazie ai numerosi turisti che ne ricorrono per difendersi dal sole, rendendo tra i più popolari un padiglione che altrimenti sarebbe stato abbastanza anonimo.

Dopo questa visione decidiamo di tornare verso Milano, visto che i cancelli stanno per chiudersi. Quello che rimarrà con noi sarà una giornata assurda, difficile e sconclusionata, dove non abbiamo visto molte nazioni ma abbiamo visto come queste nazioni si esibicono in un grande evento internazionale. Armati della nostra arma più potente, la curiosità, abbiamo notato che il risultato è un disastro comunicativo. Dalle nazioni più potenti, come Stati Uniti e Cina, da quelle in crescita come Malesia e Brasile, da quelle più deboli come Giordania e Albania nessuno ha saputo cogliere l’occasione di mostrarsi al meglio, sia in termini di appeal della nazione sia in termini di sviluppo del tema proposto, che probabilmente è risultato troppo complicato. E’ come se ai partecipanti fosse mancato il discorso che Mr. F. F. Fox pronuncia nel banchetto di fronte agli altri animali che stanno per essere sopraffatti dai cattivi agricoltori. La voce di George Clooney ricordava loro di essere molto più di animali, perché intelligenti avvocati e contabili, splendidi artisti, etc. Ci sarebbe stato bisogno di qualcuno che ricordasse alle nazioni che sono molto di più di bancarelle etniche o tigri economiche perché portatrici di culture millenarie, che sono sopravvissute grazie al loro modo di relazionarsi con il cibo.

La sensazione è quella di aver vissuto nel film “Il treno per il Darjelling”, dove uno degli attori feticcio di Wes Anderson, Bill Murray, rincorre in fretta il treno che sta partendo nei momenti iniziali della pellicola. Ma lo perde, privandosi del viaggio e privando gli spettatori di uno dei personaggi principali. Allo stesso modo, quasi tutte le nazioni hanno perso quel treno e io e Hua abbiamo viaggiato solo con l’intelligenza sanmarinese, la poesia etiope e la vitalità argentina in un viaggio che non ci ha condotto da nessuna parte, ci ha creato molti problemi, ci ha innervosito ma ci ha lasciato una storia da raccontare, ci ha fatto ridere ed emozionare.

P.S. Siamo tornati ad expo il giorno dopo. Il numero di visitatori è calato a circa 200.000 ed è stato troppo semplice visitare il sito: senza troppe complicazioni abbiamo potuto visitare ottimi padiglioni come l’Austria, l’Angola e l’Estonia, e ci siamo preparati lo zucchero filato in Slovacchia. Troppo facile, quindi troppo noioso.