Che sapore ha la letteratura working class? Un fine settimana a Campi Bisenzio, periferia fiorentina, assieme agli operai della Gkn: a parlare di libri, di teatro, di lotte. Un mondo che c’è: Questa volta non molliano.

Testo di Emiliano Bonadio. Foto di Emiliano Bonadio e Cristiano Lucchi

Se Michael Löwy, sociologo francese, chiude il suo saggio “ecosocialismo” rappresentandolo come una scommessa sulla razionalità della classe lavoratrice, ne ha ben donde.

Prologo:

Al mio arrivo, sabato mattina, la vedo per la terza volta. La fabbrica. Sono un figlio di Porto Marghera e mentre varco il cancello, penso ancora una volta a quanto quell’edificio sia lontano dalla mia immagine precostituita di fabbrica. Non c’è una ciminiera visibile, non ci sono luci abbaglianti, ne suoni metallici, rumori di entrate e uscite di mezzi a motore che sfrecciano per rifornirla ad alta velocità.

Ma se l’immaginario estetico ed esterno di una fabbrica differisce da persona a persona, è all’interno che quell’immaginario accoglie un’unità di consenso: popolato di persone in tute blu. Operai.

Ex GKN è un edificio gentile, un capannone con gli angoli smussati, che sembra non voler ferire nessuno; invece, stona col duro confronto in atto, se di confronto si può parlare. Di fronte al capannone, un rassicurante centro commerciale datato, da cui pende esposto uno striscione di solidarietà alla lotta.

A differenza di altre volte non sono venuto qui solo per supportare, ascoltare od osservare quanto accade. Ieri mi ha scritto un amico: “Domani c’è un festival di letteratura working class, scrivi per me”. Avevo già il viaggio programmato da spettatore, invece oggi entrerò con un compito.

“Per il pranzo registrarsi all’infopoint”.

Il cartello è scritto a mano, la complessità di organizzare un festival di letteratura è da dare tutt’altro che scontata, il numero di partecipanti ancora meno. È working class, non un convegno medico su prenotazione, con rinfresco in catering.

Entro nella sede del circolo lavoratori, che da venti mesi sono in presidio permanente per condurre una battaglia di economia estremamente reale, un’economia tangibile. Quella dei licenziamenti per le speculazioni delle multinazionali.

Nella tensostruttura che ospita il “circolo ricreativo” del presidio permanente, collettivo “Insorgiamo”, si è allestito un festival con pallet carichi di supporti per semiassi. Pallet che mai nessuno avrebbe pensato sarebbero serviti a delimitare un palco da cui discutere di letteratura di classe. Il contrasto con le sedie bianche in plastica, quelle che ci si aspetterebbe su un chiosco bar di un lungomare o lungo una stanca strada dimenticata di provincia è impressionante. Da far invidia ai designer finto industrial. Invece è industrial vero, allestito da operai e volontari, in un’indipendenza che solo un festival finanziato con 11.000 € di crowdfunding e senza sponsor può dare.

Un festival di letteratura working class. Che sapore ha?

L’accostamento edizioni Alegre, organizzatrice del festival, e tute blu – quelle tute blu, profuma di ferro tornito, asfalto gommato e di uguaglianza di genere. Pronunciato in un italiano che non è ancora del tutto pronto ad avere univoche espressioni sopra-genere: “ciao a tutte a tutti a tuttu”. L’introduzione è interessante e pregna dell’inclusività nella lotta del collettivo ex-GKN.

Le sedie al mio arrivo sono vuote in larga parte. Chi mi racconta dell’inaugurazione di ieri parla di un’adesione al di sopra di ogni attesa. “Prima cento persone, poi duecento, a un certo punto ne abbiamo contati seicento, cosa da perdere il conto”.

Mi siedo, il programma ormai lo conosco a memoria, ho perso il venerdì sera perché arrivo da lontano e devo sottostare ai ritmi di quella parte della famiglia che studia e lavora. Mi aspetto un sabato pomeriggio memorabile sulla working class anglofona; perciò, non sono pronto alla potenza così reale, così diversa, così poetica, dei versi operai.

La working class in versi.

Da tempo immemore ormai ho smesso di leggere poesia. Ne conservo solo una raccolta di Bertold Brecht, ma la sfoglio raramente. Così, quando Matteo Rusconi racconta di scrivere versi perché “cercavo nella poesia qualcosa che mi legasse a quell’umanità che, quando timbro il cartellino, rimane fuori”, mi accosto con rispetto.

“Trucioli è la mia giornata. Trucioli sono gli operai, lasciati all’ultimo posto della catena”. “Scambiare il volto di Dio con quello del padrone”. Parole che risuonano dentro, descrizioni che capisco, colgo immediate.

Più tardi mi dirà che alla nuova fabbrica, in cui lavora nel lodigiano, non sanno che scrive poesie. Mi dirà anche, con la meraviglia negli occhi, che una volta ha letto le sue poesie a una platea di operai durante la pausa di lavoro. Poesia nella poesia.

Mentre Angelo Ferracuti legge versi esaltanti di Di Ruscio, noi in platea, una platea di plastiche bianche, ascoltiamo le storie operaie. Di Ruscio in fabbrica a Oslo, faceva chiodi “i chiodi che non sai che cristo andranno a crocefiggere”. Gli operai, quelli veri sul palco e sotto si riconoscono, annuiscono, si commuovono, gioiscono, santificano. È una cosa che noi possiamo cogliere, perché siamo una classe lavoratrice plurale, come la lotta dell’ex-GKN. Perché si dirà poi: “non siamo un po’ diventati operai tutti di un sistema che ci manovra? Ormai tutti possiamo scrivere di operaio: è la nostra condizione”.

Ferracuti legge pezzi di Luigi Di Ruscio, che si definiva “una stranezza della storia”, ma sono rapito dal mio conterraneo Franzin. Da una sua poesia in dialetto veneto, veneto dell’est, grazie a cui la parola “toc” prende in ordine significato di “pezzo”, di unità di tempo, dell’espressione onomatopeica del suono prodotto dal lavoro del martello operaio. Mi è entrato nelle vene.

Quando è il momento delle domande vorrei chiedergli di leggere un’altra poesia in dialetto. Ma rispondendo a una questione sull’editoria dice: “pubblicare per un grosso editore, non mi interessa. È qualcosa che disturba un equilibrio”. Non è una poesia letta, ma per me è come se lo fosse.

Messaggio collettivo

In un misto di capelli rosa, bianchi, teste pelate, la sala si svuota e apre al prossimo panel. Ma prima c’è spazio per il Collettivo. Ecco un messaggio, loro, vero. Passerà più volte durante il festival, in forme simili. Risponde a un’esigenza: non siamo organizzatori professionisti, perdonateci i disguidi e abbiate pazienza. Siamo tremendi metalmeccanici e come tali sgrammaticati, vi chiediamo di perdonarci, se sbaglieremo a esprimerci. Fate presente tutto questo, diffondete quello che succede nei social, nei vostri canali. Ma non per far conoscere la vostra presenza qui ma per parlare della situazione. Potrei scrivere il nome di chi l’ha detto, le emozioni che segnavano volto e gesti di chi non può programmare la vita personale e collettiva con un orizzonte superiore alle due settimane, perché vive senza stipendio da sei mesi, perché non si sa ancora il destino della fabbrica. Di quella fabbrica per la cui rinascita hanno presentato un piano di reindustrializzazione dal basso che nessun’istituzione, padrone o santo, al momento vuol star a sentire, perché fa paura una classe lavoratrice che lotta e che vuol organizzare autonomamente il la produzione e il proprio operato.

Ancor di più fa paura un festival come quello, un festival di letteratura in una fabbrica chiusa. Ci son le minacce del sedicente proprietario su tutti i giornali. “Questo festival ha dato particolarmente fastidio, perché gli operai vogliono scrivere anche la propria storia”.

Potrei scrivere il nome di chi ha parlato, ma sono certo che sia un messaggio collettivo, di tutti gli operai ex-GKN, e come tale vada diffuso.

“Non erano più contadini, non erano ancora operai”

Siamo tremendi metalmeccanici, e come tali sgrammaticati. Anche perché, come si ricorda ora dal palco, parlando della “Fabbrica vista dal sud”, Di Ciaula sosteneva, sull’inacessibilità del linguaggio: “Chi parla difficile vada a fare in culo”.

Si parla appunto di Sud, di quella retorica che negli anni ’60 voleva portare il Sud sulla strada del Nord. Una retorica in cui la natura è stato primitivo che la fabbrica viene a salvare, portando modernità e lavoro. Con Di Ciaula, figlio, si ripercorre il discordo profetico di Di Ciaula, padre, riguardo all’industrializzazione forzata del Sud. Di come questa fosse irrimediabilmente destinata a fallire, e delle contraddizioni della narrazione del sud nella storia italiana.

Sottolineo, in un mondo che sul mantra della “sostenibilità” sociale mette oggi al centro dello sviluppo la figura dell’imprenditore come buon’anima illuminata, quanto cita Davide Di Ciaula, in merito agli esempi che si portano oggi: “Quante Olivetti ci sono state in Italia? Probabilmente pochissime. La maggior parte delle fabbriche trattava gli operai come carne da macello”. Un duro colpo alla narrazione odierna delle fabbriche sostenibili, che isolano l’operaio in nome del “welfare” aziendale, e lo spremono nel nome, mai citato, del profitto. Un indice del cattivo uso delle parole.

Di un filo da Reggio a Treviso, non parlare mentre mangi.

Pausa, mensa. Conosco Italo, o meglio è Italo che conosce me, noi, tutti seduti al tavolo. Secondo stereotipo emiliano, è di compagnia. Operaio vero, guida il CAT, settore ceramiche. Produzione, di quella vera che “fa polvere”. Paese: Reggio Emilia. Il padrone lo chiama ancora “padrone” e racconta ai colleghi perché sia giusto chiamarlo così. Ci spiega che sua madre, ottant’anni, fa ancora la magliara e non riesce a trovare qualcuno che lo faccia bene uguale: “se c’è un buco qui, sul maglione, te dopo mezz’ora non è che non lo vedi, lo cerchi perché non ti ricordi più dov’era!” Ottant’anni e nessuno a cui passare il lavoro. Ha Cecilia di fronte, ha Cecilia di fronte, giovane ex impiegata, madre, compagna. Settore maglieria nel trevigiano. Un filo in qualche modo li lega, si parla di delocalizzazione a favore del profitto, di competenze andate ormai perdute. Alla faccia della regola che impone di non socializzare a tavola, perché Loro dicono che non è educazione. Lo diceva anche Bertoli ne “l’autobus”: “il muro del silenzio è stato demolito”.

Un pomeriggio unico

Il pomeriggio è, come auspicato, di una potenza inaudita.

Francesca Coin definisce GKN una lotta rigenerante, difficile ma una ispirazione nel paradigma plumbeo della politica italiana.

 Ci riporta, con parole dure, arrabbiate al tema “classe” come parola spiazzante, nascosta nel dibattito pubblico. Un immaginario delle lotte rimosso, nascosto alle nuove generazioni.

Ha l’arduo compito, toccherà poi anche a Alberto Prunetti, scrittore grossetano, di intervistare D. Hunter, autore di “Chav”: “Ci si può sentire davvero in colpa quando si è accusato di essere la causa della propria condizione

Un pomeriggio intenso, dentro alla letteratura di classe. Quella della working class, la classe meno stronza nella storia, ma in cui c’è comunque violenza e in cui la solidarietà non va data per scontata, va costruita.

Nel frattempo, la sala è piena, ancor più della mattina. I complimenti all’organizzazione dovrebbero essere ripetuti in continuo. Il festival pullula di vita, di parole e ascolto.

Dal palco arriva un “Credo sia unico quello che stiamo vivendo qui”. Uno scroscio di applausi.

Nella letteratura working class chi scrive non rinnega l’appartenenza di classe, ma ne mette un orgoglio che incentiva alla lotta. Una letteratura potenzialmente sovversiva, perciò emarginata dalla cultura alta. Una letteratura a un certo punto definita “selvaggia, naïf” quasi a darne una visione minore, fuori e dalla vera letteratura.

Negli ultimi anni si ricomincia a parlare di classe come unità distinte tra oppressi e oppressori.

Anche questo festival è un segnale che si possono aprire gli spazi e parlare di termini che non si dicevano più. Grazie anche alle lotte, perché le teorie, disunite dalla pratica della lotta, non portano a molto.

Al “Possiamo prenderci il tempo di vita che ci è stato tolto per secoli o dobbiamo solo parlare di alzare i salari?” la sala esplode- applausi fragorosi.

E così emerge il perché dell’adesione alla lotta degli operai ex-GKN, alle manifestazioni, al festival. Perché tutte le lotte si possono unificare, perché lottano contro lo stesso sistema: le disuguaglianze. Ciò che sta accadendo è la speranza che questa fabbrica assurga a simbolo delle lotte working class.

Rimane, della potenza pomeridiana, la necessità di raccontare storie della classe lavoratrice dalla classe lavoratrice. Emerge il bisogno di togliere la penna alla classe media che scrive dei lavoratori. Perché “siamo capaci di raccontarci da soli”.

Fine primo tempo

Devo andare, è già tardi e non ho modo di godere della serata. Ritornerò domani.

L’ultima immagine che mi porto a casa oggi è quello del parcheggio di GKN pieno. Non l’avevo visto mai così. Mi domando da quanto tempo non si vedessero così pochi posti liberi e quando si riempirà di nuovo, ma di persone che verranno a lavorare.

Cammino verso la stazione e mi trovo ad attraversare il parcheggio del centro commerciale dirimpetto alla fabbrica. Anche qui, pieno di auto per il festival del consumo. L’importanza della lotta dei lavoratori GKN assume toni cruciali.

Secondo tempo

Quando arrivo domenica, sembra si respiri quell’aria di fine lavori, quella che rende tutto un po’ più rilassato. Ma forse è un’impressione dovuta al mio arrivo in ritardo. Le sedie sono piene, mi avvicino e dal palco arriva una voce: “I lavoratori mica parlano solo di lavoro, così come gli immigrati non parlano solo di immigrazione. Bisogna riconoscere la totale umanità di ciascuno nella classe”. Più rilassato è un aggettivo già vecchio, dimenticato, sparito. Mi siedo.

Si parla di working class, dei dislocamenti continui per il lavoro, del fatto che chi non trova lavoro dovrebbe andarsene, secondo Loro. Economia della Thatcher. Si parla di Stati Uniti, dei lavoratori che devono spostarsi sempre, ma la classe media mai. Questi dislocamenti continui provocano dolore in chi si sposta, in chi non mette radici e perde memoria.

Si parla di malinconia e di vergogna della classe lavoratrice, del senso di inadeguatezza che abbiamo, che portiamo. Dellaworking class che non trova le proprie origini perché viene cancellata ad ogni spostamento.

Presa di coscienza

Il primo passo per uscirne, dicono, è la presa di coscienza della condizione di classe. Penso a quando ho deciso di dedicare del tempo alla mia vita, togliendolo per un po’, tutto al lavoro. Comprendo quanto il tempo così guadagnato mi abbia orientato nel mondo dopo quindi anni di lavoro, a prendere coscienza dei limiti miei e dei limiti che mi sono stati imposti. A riconoscere l’origine della mia rabbia. Penso che dovrei alzarmi, prendere ancora dei libri all’ingresso, per capire di più sugli hooligan, senza il filtro della narrazione italiana. Realizzo, in quel momento che il manuale che sto leggendo per l’esame di storia contemporanea: “Storia economica del mondo”, scritto da economisti neoclassici, nomini Robert Owen come filantropo e non come uno dei padri del socialismo utopistico al preciso scopo di cancellare la working class, e il suo ruolo nella “Rivoluzione industriale”.

Mi alzo. Vedo con piacere che di libri esposti ne sono rimasti ben pochi. Così si misura il successo di un festival di letteratura working class, dal numero di pagine che parlano di lotte, a disposizione di nuovi lettori.

Mangio un panino, bevo il caffè. Un nuovo caffè. Esco sul prato al sole e ascolto entusiasmo.

Una ricetta per tuttu.

Collettivo GKN. Atmosfera di chiusura. Ultimi 5 minuti di attesa. La sala si ripopola. Chi entra e chi è arrivato ora.  Una ragazza ricorda al compagno che è il primo festival del genere. Ma non solo in Italia! Per di più auto-finanziato, autogestito.

In effetti, dal palco ci comunicano che almeno un paio di migliaia di persone hanno partecipato al festival e sostenuto la classe operaia. Nessuno sponsor, massima libertà. Il primo festival di letteratura working class, dopo un tentativo a Bristol. Un tentativo working class nei contenuti, “ma sbagliato e logoro nella forma”, dice Prunetti, che questo festival l’ha diretto. Perché “non si può dare una forma logora a contenuti working class. Il romanzo nasce con la letteratura borghese dell’individuo che si fa strada, ora è il momento degli operai, cui torna la scena. “Oggi i lavoratori sono in grado di raccontarsi da soli” in una lotta che, raccontata, ha fatto convergere le lotte. Con questi giorni, si è provato a fare una convergenza tra la lotta e la cultura”.

 In una miscellanea di conclusioni e ringraziamenti, arrivano inviti notevoli, a fare rete, a scrivere e raccontare questi giorni, queste storie, questa lotta alla ricerca di un nuovo immaginario, una working class pluriculturale.  

Letteratura working class è ribaltare l’ancestrale gerarchia tra chi deve lavorare e chi ha la fortuna di pensare.

Così la dimensione del “fare da sé” spiega il movimento operaio, come lavoratrici e lavoratori che possono parlare e scrivere da sé. E con il far da sé possono far ripartire la fabbrica, perché altrimenti, come accade, non lo fa nessuno.

In platea l’impressione è quella di assistere a qualcosa di grande, di nuovo, di fresco. Una lotta nata da chi, il 9 luglio 2021 ha detto che no, “questa volta noi non molliamo, mollate voi, perché non sta scritto da nessuna parte che dobbiate vincere sempre voi”. Boato in sala. Poi silenzio.

Epilogo

Dal collettivo ex-GKN, presenta “INSORGIAMO, la scrittura e la lotta”

Questo festival ha dato particolarmente fastidio, perché gli operai vogliono scrivere anche la propria storia.

“…che nel loro tentativo di cancellare la tuta blu, a un certo punto ci tolgono proprio la tuta blu. Ci danno queste tute bianche, per uno che lavora in officina col grasso! Che oltre a essere una cosa irrazionale, come tante delle cose irrazionali che (Loro) fanno, è trovarti con questa tuta che ti fa sentire sporco, a disagio e non orgoglioso della divisa, è un indebolimento piano piano della tua psicologia e del tuo sentirti tuta blu. Hanno individuato che li c’era un elemento di divisa, di appartenenza e di orgoglio. E quindi quell’orgoglio andava piegato!”

“In questi venti mesi abbiamo vissuto cose diverse, che magari un giorno troveremo il modo di raccontare in maniera più sistematica o forse no, lo vedremo, ma è un orgoglio e un onore poter raccontare questo festival e ciò che ne seguirà. Se prenderemo una denuncia per aver organizzato un festival di letteratura working class, la prenderemo serenamente”.

Insorgiamo, la scrittura e la lotta” è una scrittura collettiva e diretta, una narrazione che ci può far uscire da una dimensione economica […] che dia spazio a un valore non solo economico della lotta. Perché per difendere e monetizzare in maniera più alta possibile il valore del tuo tempo, devi aver un senso del valore del tuo tempo. Che avviene se tu riesci a narrare cos’è per te quel tempo, quella vita. Altrimenti rimani intrappolato in un rivendicare un salario più alto per essere più consumatore. In un gioco a perdere, sempre”.

Coro, quello che cantano anche i bambini, a Firenze.

Titoli di coda

Arrivato a casa stendo la lavatrice. Nella felpa di mio figlio, l’etichetta riporta taglia “dieci anni, cm. 140/146”. Mi ha chiesto della GKN per strada, mi ha chiesto perché non lavorano da soli, senza dirigenti e padrone. È ora di iniziare un racconto dall’interno, un racconto di e dalla working class, una classe razionale con molteplici lotte da vincere insieme.