Testo di Laura Lenci | Foto di Germana Urbani

«Ca’ Venier più che un paese vero e proprio, è una zona di case sparse lungo il Po di Venezia, prima che il fiume si dirami nei due grandi bracci del Po di Pila e del Po di Gnocca, verso le sacche lagunari e poi il mare. In quel posto ciò che si vede all’intorno, più o meno ad ogni punto dello spazio, sono solo distese di campi coltivati a grano; più oltre verso Ca’ Zullian spuntano all’orizzonte gli acquitrini, ma dovunque strade dritte a perdita d’occhio, attraversano i terreni piatti e sempre identici che sono vecchie lagune ora interrate. Niente di meno fotografabile di questo paesaggio, per la sua piattezza e uniformità» (Gianni Celati, Verso la foce, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 131).

Piana, pianura, spianata, pianoro, bassopiano, landa, ma anche flaches Land, flatland, plain, tierra plana, plaine. Questi e molti altri gli appellativi della pianura, sia essa più o meno accogliente. La pianura è un mondo. È un paesaggio aperto, nel quale lo sguardo talvolta non scorge confine, tra terra e cielo. Un paesaggio del possibile: possibile nell’aprirsi a tutte le possibilità, ma possibile anche perché da questo vuoto scaturisce la fantasticheria, la possibilità di dare un senso allo spazio concavo che richiama conoscenza, come sosteneva il buon Socrate.

La pianura è stata per me di due tipi, quella vissuta e quella dei libri. La pianura è stata inizialmente gli spazi immensi della letteratura russa, dei viaggi di Marco Polo, ma è stata poi e soprattutto la landa desolata e cocente di John Steinbeck (Furore, 1939), quella avventurosa di Jack Kerouac (Sulla strada, 1951), quella di Kent Haruf (Trilogia della pianura, 1999-2013) secca e tagliente come la sua lingua ma pur sempre invenzione, quella distopica battuta dalla pioggia gelata di Cormac McCarthy (Trilogia della frontiera, 1992-1998 e La strada, 2006). Poi è venuta la pianura di Chatwin (Patagonia, 1977) percorsa dai venti e dai rotoli di sterpi, quella di Karen Blixen (La mia Africa, 1937) tra il Kenya e la Tanzania. La pianura che affiora nel mio immaginario è stata per molto tempo quella sterminata dei continenti americani, dove la traccia della presenza umana è rada o la natura se l’ha pressoché ringhiottita.

Al contrario, quella vissuta è la pianura continentale, faticosa al respiro, insidiosa allo sguardo: immersa nella nebbia in inverno, avvolta nell’afa tremula in estate. L’occhio non trova ostacoli, le strade dritte non finiscono mai. Lo squarcio all’orizzonte che si spalanca sulla pianura, scriveva Luigi Ghirri, è esercizio di sguardo, poetica dello smarrimento, di colui o colei che non solo percorrono la pianura a piedi come Gianni Celati (Verso la foce, 1989) o la esplorano sulle mappe antiche come Marco Belpoliti (Pianura, 2021), ma che ne sanno leggere il reticolo fatto di stradelle, di canali, di alberi di confine, ville, cascine e industrie andate in malora, di colture intensive, di riforme agrarie mai decollate. Anche la nebbia (o è smog?) acquista un suo senso, non è noia, non è spaesamento, non è ostacolo. Essa è bensì occasione. «Di immaginare, di guardare, di vedere, quello che non si riesce a vedere quando tutto è completamente visibile» (Marco Belpoliti, Pianura, Torino, Einaudi, 2021, p. 31).

Ed ecco una nuova pianura affiora tra le pagine di Germana Urbani (Chi se non noi?, 2021). Geografia è sinonimo di topografia e toponomastica e al contempo si fa geografia interiore, mappa di un luogo del cuore, cartografia dell’esistenza. Ancora una volta la letteratura ci introduce alla geografia, non come fondale scenografico, non come correlativo oggettivo dei sentimenti, non come ambientazione. Percorrere la letteratura, così come percorrere la pianura, ci permette di riabitare il pianeta, ricreare geografie tra luoghi e persone, imbastire nuove semantiche dei luoghi. Non a caso, Guido Piovene scriveva a proposito di un suo viaggio negli Stati Uniti: «A pochi chilometri dal confine della Louisiana, si presenta una campagna che sembra quella lombarda» (Odore d’America, Milano Mondadori, 1990, p. 54). Non è il paesaggio che conosciamo, che ci ha formati forse, l’unità di misura per conoscere il resto del mondo?