Testo e foto di Valeria Cipolat
La piccola storia di una donna e di un uomo. Due persone anziane. Lei era del Nord del paese, lui del Sud. Hanno vissuto gli anni della guerra in due fronti opposti. Erano ragazzi. Mezzo secolo fa i Viet-cong entravano a Saigon, gli americani fuggirono disordinatamente. La guerra era finalmente finita.
“Aspettami fuori dal portone”, mi aveva detto quando le porte dell’ascensore si sono aperte al piano terra; lei è rimasta dentro: sarebbe scesa a quello inferiore.
Dopo qualche minuto è apparsa, in sella al suo scooter. Questa “ragazza” di 71 anni è abituata a portare in giro i suoi amici con questo mezzo. Così mi ha allungato un caschetto blu, mentre si sistemava meglio il suo, arancio. Il cielo promette pioggia; non fosse per questi 26 gradi fissi, avrei pensato che una camicia non fosse sufficiente per fare un giro in moto.
Salgo dietro, facendo attenzione a toccare terra con i piedi, per non pesare completamente sulle sue forze. Penso che questa esile donna che mi arriva alle spalle non riesca a sostenere tutto il mio peso. Dopo un avvio incerto, c’inseriamo anche noi nel traffico caotico di Nha Trang, sulla strada principale che è anche il lungomare, direzione: chi lo sa. Il suo inglese al mio orecchio non abituato all’accento, è sempre un po’ misterioso, per me.
Pertanto mi lascio portare dal flusso della sua intraprendenza, verso una destinazione a me ignota, come da qualche giorno accade, da quando sono arrivata. Le moto sfrecciano da tutte le direzioni. Devo ammetterlo, con questo asfalto bagnato, non mi sento molto sicura. Già m’immagino qualcuno tagliarci la strada all’improvviso, per poi farci frenare e sbandare su questo asfalto scivoloso. Alcuni indossano degli impermeabili colorati che fanno sembrare i guidatori delle eleganti mante colorate, che volano nel mare del traffico cittadino.

Ci fermiamo fuori a un grande centro commerciale ancora chiuso, dove campeggiano piccole attività di street-food. Alle 7 del mattino ci sono ancora pochi avventori: si va dal cibo koreano al caffè italiano, che di italiano ha solo il nome. Ha dato appuntamento a un tour operator. Mi chiede cosa voglia fare oggi, ma la domanda mi coglie impreparata. Non me l’aspettavo; non sono ancora pronta per star fuori tutto il giorno. Pensavo andassimo a bere un caffè con i suoi amici sotto casa, e poi tornassimo, come abbiamo fatto ieri. Invece abbiamo corso per almeno 15 minuti verso il centro di questa città sul mare che è un po’ Coba Cabana e un po’ Cannes, versione 4.0., con i suoi grattacieli vertiginosi di 40-50 piani, terra d’esilio d’intere famiglie di russi che fuggono dalla guerra.

Le dico che non avevo capito, che non ho voglia di fare tour organizzati, le dico di scusarmi; mi risponde che non è un problema.
Questa donna che è un vulcano, quando è a Los Angeles, ogni giorno si alza alle 4.30, raggiunge in scooter l’inizio del sentiero che si arrampica sulle colline vicino a casa sua e fa almeno mezz’ora di camminata. Poi torna a casa, si prepara un caffè, prende la borsa e va in palestra. Dopo un’ora di palestra, a volte rimane in sauna per rilassarsi un poco. Dopodiché… via a pranzo, da chiunque la inviti. Dice che c’è sempre qualcuno che la chiama per mangiare insieme. V. si ritiene molto fortunata; non si sente affatto la tipica donna devota, vietnamita che prepara il pranzo per la sua famiglia, non lo fa più. L’unico periodo che ha cucinato per qualcuno, è stato per 16 anni per il figlio, quando viveva ancora in Vietnam. Moltissimi anni fa. Poi il male era arrivato. Madre e figlio erano corsi insieme dall’altra parte del mondo per tentare di rallentarne il decorso. Invano. Prima di lasciare questo mondo però, il figlio le aveva fatto giurare che non sarebbe più tornata indietro. Che avrebbe “liberato” il padre, ma soprattutto se stessa: solo in terra americana avrebbe potuto farlo.
Mi aveva spiegato che per la coltura vietnamita, una donna appartiene alla famiglia del padre prima di sposarsi e a quella del marito, dopo il matrimonio. Per la coltura vietnamita, una donna non è completa se non è madre e venendo a mancare il suo “dono”, per la società sarebbe stata “inutile”, perduta nell’oblio dell’ignoranza. L’unico modo per uscire da questo tunnel era il divorzio. Il marito rimasto in Vietnam avrebbe potuto risposare una donna più giovane, che avrebbe potuto dargli un altro figlio. Lei, che ormai figli non poteva più averne invece, sarebbe diventata “madre” di moltissimi altri. Ma questo ancora non lo sapeva.
Anni prima aveva avuto un intuito: il mercato si stava aprendo e il Paese aveva bisogno di nuovi mezzi per muoversi: solo le biciclette non potevano bastare per questa società che correva sempre più verso il futuro. I risciò sarebbero presto diventati solo un mezzo per far muovere ricchi e grassi turisti, principalmente americani che a volte ritornavano a rivedere i posti dove avevano perso troppo presto speranza e gioventù, durante una guerra che nessuno voleva ricordare. Ci voleva il motore, al posto dei pedali. Ci volevano le motociclette. E V. era stata una delle prime persone a intuirlo. Aveva avviato un business per importare motocicli dal Giappone. E aveva visto lungo. Ma anche i soldi che erano arrivati (“a lot, a lot of money Valery!”) non erano bastati a fermare il male che le aveva strappato il suo unico figlio. Rimanere in L.A. significava perdere parte dell’impero che aveva costruito, ma la vita e la libertà sono beni troppo preziosi e valgono più di qualsiasi somma di denaro.

Quale anno dopo il marito, incapace di gestire il business da solo, aveva perso tutto ed era stato costretto a vendere anche la casa che lei aveva comperato, senza però r mai restituirle un centesimo.
Dopo qualche anno negli Stati Uniti si era risposata con un connazionale, conosciuto nei corridoi del nosocomio californiano. Era rimasto vedovo e in quel momento era sembrata la cosa migliore da fare. Aveva scoperto presto che l’uomo aveva lasciato due figli in Vietnam e, dopo la morte della moglie, non era stato molto propenso a portarli nel Nuovo Mondo. Lei lo aveva convinto e così li aveva fatti arrivare. Si era presa cura dei ragazzi, li aveva fatti studiare. Da quell’”esperimento”, molti anni erano passati, molte vite erano state vissute. Ogni volta che nel suo villaggio qualcuno aveva un figlio dotato, ma non aveva i mezzi economici per farlo studiare, lei ne diventava lo sponsor. Anticipava per loro rette scolastiche e libri. Alla fine della carriera universitaria, erano gli stessi studenti che aiutavano un’altra persona in difficoltà. Un gesto contagioso che aveva innescato una catena di altre buone azioni, nella logica della cultura nordamericana del “giving-back”, cioè dare agli altri, poiché tu hai avuto la fortuna di ricevere e sei nelle condizioni di poter aiutare chi sta peggio di te. La maggior parte di quei ragazzi erano diventati medici e, una volta completati gli studi, rimanevano negli States con una carriera ben avviata, o riuscivano ad andare a lavorare in altri Paesi lontani, come il Giappone.
Così nel suo paese natale vietnamita era diventata quasi una regina. Aveva fondato la sua associazione, i suoi secondi figli erano diventati grandi. Dopo qualche anno anche il secondo marito se n’era andato, anche lui portato via da uno di “quei mali”.
E’ stato allora che aveva capito, che non era come le tradizioni le avevano inculcato. In Vietnam si diceva che quando nasce una bambina, questa appartiene alla famiglia a cui verrà data in sposa; ecco perché quando in una famiglia nasce una bambina si dice che appartiene “provvisoriamente” al padre. Dopo la morte del secondo marito aveva deciso di rompere gli schemi: aveva capito che una donna non deve per forza sposarsi: può essere libera di fare tutto ciò che vuole senza chiedere il permesso a nessuno.
Aveva iniziato a viaggiare, il mondo era grande e lei voleva vederlo tutto; un po’ come aveva fatto Rose, la protagonista di Titanic, dopo essere sopravvissuta al naufragio più grande della storia contemporanea. Ed era in uno di questi viaggi che l’avevo conosciuta due anni prima.
Ci eravamo incontrate in un bar ad Antigua di Guatemala. Aveva appena partecipato a un’escursione di due giorni che prevedeva la scalata di un vulcano, nelle vicinanze di Antigua, l’antica capitale. Il resto del gruppo, giovani ventenni nordamericani, erano spossati, mentre lei aveva ancora in corpo energia per uscire a prendere un aperitivo, in uno dei roof-top bar in voga in quella cittadina coloniale.
Avevamo chiacchierato del più e del meno e a mano a mano che lei parlava, a me veniva sempre più voglia di visitare il suo Paese natale. Era nata nel 1955 in un paesino del Vietnam del Nord, filo-cinese, allora diviso da quello meridionale dalla linea immaginaria del 17° parallelo, linea di demarcazione decisa a Ginevra il 12 luglio 1954, tra francesi e vietnamiti, con la mediazione di americani e russi. Nel ’59, a soli 4 anni era stata mandata in un Istituto Statale educativo, per formare ed educare le nuove generazioni di vietnamiti. Non sono riuscita a trovare molte informazioni su questi istituti educativi. In fondo non era un’orfana, una famiglia ce l’aveva, ma penso che allora si applicasse, come in Cina, la regola di un solo figlio per famiglia. E i secondi, specie se donne, venivano mandati ancora in giovanissima età per forgiare corpo e mente per il Vietnam del futuro. Ci sarebbe rimasta ancora per moltissimi anni. Da allora aveva potuto vedere la madre solo una volta all’anno, in occasione delle vacanze estive. Il padre invece, soldato in una delle guerre d’Indocina, morì molti anni dopo, ma lei, non sarebbe mai più riuscita a rivederlo.
Nel 1975, tutti i ragazzi dell’istituto erano stati trasferiti in Cina, per paura dei bombardamenti. Riuscirono poi a rientrare in Vietnam qualche anno dopo. A 24 anni, aveva sposato un suo compagno di istituto, dal quale aveva avuto il figlio, portato via troppo presto dal destino.
Questa piccola-grande donna che è V, è un vulcano di energia, nonostante le avversità della vita è sempre riuscita a rialzarsi in piedi e ad andare avanti. Non so dove abbia trovato la forza per farlo. I suoi occhi brillano costantemente, salvo forse quando guarda la foto dello screen-shot dov’è fotografata con la madre, mancata solo qualche anno fa. “Avevo solo 4 anni”, mi dice più volte guardandomi negli occhi, nei giorni successivi, quando aggiunge dettagli alla sua storia. Non posso neanche immaginare cosa debba aver passato; il dolore del distacco dalla madre, il rammarico degli anni di separazione in così giovane età dalla donna che le aveva donato la vita. L’amore degli altri bambini che erano diventati la sua famiglia, l’avrà consolata parzialmente, rispetto all’affetto della madre e del resto della sua famiglia.

Sono andata a trovarla a Nha Trang, dove vive qualche mese all’anno, alternando la sua vita qui in Vietnam a quella di Los Angeles. Anche qui si alza presto al mattino e passeggia per almeno mezz’ora prima di andare all’appuntamento delle 7 del mattino, ogni giorno con l’amico, M, conosciuto nei gruppi di trekking dei vietnamiti che abitano in California. M ha quasi 60 anni ed è vedovo da un po’; ha figli grandi e genitori anziani che vivono ancora a L.A.
Ma qui lui ha trovato la sua attuale compagna, che non ha mai lasciato il Vietnam. Lui è pensionato e abita un po’ qui e un po’ là. La sua storia è stata diversa da quella di V, perché M invece è nato a Saigon, cioè nel sud del Paese.
Dopo che gli americani se n’erano andati, nell’aprile del ’75 la vita nel nuovo Vietnam era cambiata drammaticamente. Con la caduta di Saigon, avvenuta il 30 aprile del 1975 coloro che avevano simpatizzato per gli Stati Uniti venivano identificati e trattati dalla nuova società come cittadini di seconda classe. Inoltre il Vietnam subiva un embargo da parte degli Stati Uniti che lasciava il Paese isolato e la popolazione in condizioni di estrema povertà. Pertanto molte persone, cercarono rifugio al di fuori del proprio Paese. Si parlava quindi dei Boat People, persone che cercando di fuggire dal Vietnam a bordo di imbarcazioni di fortuna, trovavano rifugio prima in Tailandia e poi in Indonesia. M era fuggito insieme al fratello e aveva vissuto per mesi nei campi profughi, fino a quando era riuscito a ottenere il visto per gli Stati Uniti come rifugiato, riuscendo a congiungersi con altri membri della sua famiglia che da anni vivevano in quel Paese.
L’amicizia di V e M si è trasferita dagli Stati Uniti al Vietnam. M si è già comperato un appartamento, dove conta di ritirarsi, una volta che i suoi vecchi genitori se ne saranno andati. Anche V ci sta pensando, per il momento ha affittato un appartamento a pochi metri da M.
Anni fa un’amicizia così, tra vietnamiti del nord e del sud sarebbe stata impensabile. Loro invece ci sono riusciti.
“Sono passati ormai 50 anni e il Vietnam di oggi è molto cambiato”, mi dice M senz’ombra di rancore. Sorrido a quest’uomo che ha scelto di perdonare e vorrebbe rientrare nel suo Paese, per passare gli ultimi anni che gli restano.