
Ho trovato questa foto sul suo profilo Instagram. Guardatelo:
e capirete il lavoro di Maryam. Trentatré anni, un figlio di tredici, Ghaith, che era riuscita ad allontanare da Gaza e fargli raggiungere parenti negli Emirati Arabi. Lei è rimasta. Dal 2018 era una fotografa, una videomaker. ‘Un tempo, prima della guerra, mi piaceva fotografare le cose belle’, aveva detto. Un tempo che si è spento per tutti a Gaza. Maryam era diventata una giornalista, ostinata e coraggiosa, che doveva raccontare al mondo quello che stava accadendo a casa sua. Inviava le foto all’Associated Press.
Come molti giornalisti era consapevole che ogni giorno poteva essere l’ultimo. Aveva preparato la sua lettera d’addio, rivolta al figlio: ‘Voglio che tu tenga la testa alta, che studi, che tu sia brillante, che diventi un uomo che vale, capace di affrontare la vita, amore mio’.
Non so come avvenga, ma in rete c’è il suo ultimo video: non è la documentazione di una guerra, ma è l’immagine di una donna che si riflette in uno specchio, un video di una manciata di secondi, senza un sorriso, molto serio, molto bello, voglio scrivere. Un video come chiunque con un cellulare in mano è tentato di fare (e quasi sempre lo fa) quando si trova davanti a uno specchio.
Maryam è stata uccisa il 25 di agosto dal bombardamento israeliano sull’ospedale Nasser. Assieme lei sono morte altre venti persone. Fra di loro quattro giornalisti: Muaz Abu Taha, Mohammed Salama, Ahmed Abu Aziz, Hussan al-Masri. Maryam voleva che tutte le vittime di Gaza avessero un nome. Lo vogliamo anche noi.
(as)
