Testo e foto di Giorgio Enrico Bena

Al calare della sera le nuvole circondano rapidamente la cima del monte Kyaiktiyo. L’atmosfera diventa fatata. Due leoni di pietra, ai lati di una scalinata, sono i guardiani della Pagoda e segnano il confine inaccessibile alle scarpe: secondo l’usanza birmana, da qui in poi dovrò procedere scalzo.

Cammino su lastre di marmo freddo, scivoloso e bagnato dal vapore di quelle nuvole che mi roteano attorno e sembrano giocare, nascondono a tratti la visione della strada e a tratti la rendono nitida. Nella stagione delle piogge il buio scende rapidamente, come il freddo, pochi pellegrini mi superano a passo deciso seguiti da portatori carichi di bagagli. Il timore di perdere l’equilibrio rende i miei movimenti goffi e impacciatati mentre Thae Su, la guida birmana che mi accompagna, muove sicura i piccoli passi contenuti dalla gonna elegante che la fascia fino ai piedi. Le chiedo dov’è la Pagoda, mi indica una direzione nella nebbia. Ancora qualche passo poi scorgo il macigno, sembra un asteroide color oro sospeso nel vuoto e illuminato da un irreale raggio di luce gialla. Attorno a me gesti di devozione, corpi inginocchiati e mani giunte che stringono sopra il capo incensi accesi.

Il monte a poco più di 1000 metri di altitudine sorregge in inspiegabile equilibrio il masso alto 7 metri, la Pagoda Kyaiktiyo, il Golden Rock, che si affaccia sullo strapiombo per metà della sua circonferenza. La Roccia d’Oro è una delle più importanti mete del pellegrinaggio buddista birmano, per raggiungere la quale i devoti percorrono a piedi anche decine di chilometri dai villaggi vicini.

Mentre procediamo Thae Su mi racconta il mito del Re che cercava una pietra di forma simile alla testa dell’eremita che gli aveva donato una ciocca di capelli di Buddha. La trovò in fondo al mare. Per lui, figlio di uno sciamano e di una Naga, principessa serpente, nulla era impossibile, così una piccola barca caricò la roccia e volò sulla montagna dove la pose in bilico sulla cima. Il Re fece costruire su di essa uno stupa per contenere i capelli di Siddharta che, ancora oggi, la leggenda vuole permettano al macigno di restare in equilibrio sulla vetta del monte Kyaiktiyo. È difficile descrivere lo stupore nell’osservare questo masso che da 2500 anni viene eletto a luogo di culto e da sempre sfida le leggi della natura in una terra spesso scossa da violenti terremoti.

L’odore degli incensi attraversa la nebbia e profuma di sacro le gocce d’acqua sulla mia mantella, sottile e inutile. Si alza un potente vento, prima in una direzione poi in un’altra fa agitare una bandiera, quasi fino a strapparla. Il rumore del tessuto sembra voler dar voce al divino. Il buio è squarciato dai raggi giallo oro dei potenti fari, così intensi da far sembrare sia la pietra ad emettere luce.

Due uomini sono ora vicini alla Pagoda e applicano su di essa sottili lamine d’oro. Thae Su mi spiega che per il theravada, la forma di buddhismo dominante in Birmania, le donne non possono avere accesso ad alcuni luoghi sacri. Tenute a distanza da cartelli, cancelli e severi guardiani, vengono incolpate di aver accumulato un cattivo karma nelle vite precedenti. Sono ben cinque le sofferenze che le allontanano dagli uomini e rendono così per loro difficile raggiungere il nirvana. La fede sembra però rimuovere questi ostacoli, dissolvere ogni possibile ribellione e costruire un alone di misticismo palpabile. Applicare una foglia d’oro è un importante segno di devozione, si acquisiscono meriti e buona sorte per questa vita e per quelle future. Pacchetti con piccoli quadrati di foglie costano pochi dollari, che vengono spesi volentieri anche dai buddisti più poveri. Si misura la venerazione anche dallo spesso strato di prezioso metallo che ricopre interamente il Golden Rock.

Thae Su osserva spesso la Pagoda in silenzio, assorta, a tratti quasi assente con i pensieri in un’altra dimensione. Suppongo le sarebbe gradito compiere un gesto proibito e allora azzardo una domanda, la richiesta di poter applicare i fogli d’oro per lei. Sorride, si allontana un istante poi mi mette tra le mani due piccoli quadrati di carta, legati da un sottile spago rosso, che racchiudono i fogli preziosi. Li stringo e mi incammino con la paura che il vento me li strappi di mano. Ad ogni passo temo di perdere la stabilità, quell’equilibrio che per me è precario e non lo è invece per questo masso che sporge sullo strapiombo dalla notte dei tempi.

La condensa delle nuvole mi ha infradiciato e reso la strada sempre più scivolosa, il vento però si è quietato: quasi un invito ad avvicinarmi senza timore a quell’oro abbagliante nella notte. Oltrepasso un cancello dove una mano mi afferra, il terreno è in pendenza verso il buio, senza parlare l’uomo che mi trattiene gesticola ad indicarmi come applicare le lamine. Poi si allontana di qualche passo. Ora siamo soli io e la Pagoda.

Sotto i piedi scorre un sottile rivolo di acqua, il mio sguardo si concentra su una protuberanza. Sono emozionato, sto compiendo uno dei gesti di culto più profondi per questa terra che mi accoglie. Scorrono velocemente i luoghi visti finora, i templi di Bagan, il lago Inle, Mandalay, Rangoon, Nyaung Ohak, i mercati, le etnie. Interpreto questo atto come ringraziamento, perché il mio bagaglio di viaggiatore è stato arricchito ed esprimo i desideri di buoni propositi per tutti e per tutte le vite possibili.

L’acqua scende lungo le pareti e gli scalini sono trasformati in cascate. Sull’ insegna ci osserva una mantide in frenetico movimento, agitata dalla luce, mentre aggrappata ai mattoni più asciutti è invece immobile una farfalla ad ali aperte. Gialla, dalla parte superiore bordata di viola parte un contorno nero a disegnare la forma di un occhio, le ali terminano con lunghe code che si attorcigliano al fondo, quasi l’opera d’arte di un artista bizzarro. Non ne avevo mai viste di così grandi in natura.

Sciami di falene vengono attirate dalle luci fioche sopra le porte esterne delle camere e dall’oscurità arrivano a saziarsene i pipistrelli. Ritorna il vento, per tutta la notte scrosci di pioggia si scagliano contro la finestra della camera e mi inducono a ringraziare chiunque mi abbia permesso il contatto con la Pagoda trattenendo per quegli istanti le forze della natura.

Al mattino presto tutto è cessato. Salgo su un camion per tornare ai piedi della montagna.

La foresta circostante è illuminata da spuri raggi di sole, bucano il grigio delle nuvole e illuminano le cime degli alberi che spuntano da nuvole di vapore. Una processione di giovani monaci al centro della strada ci obbliga ad una fermata. Alcuni sono bambini, camminano con andatura allegra e gioiosa. Uno di loro agita una mano in gesto di saluto, incrociamo gli sguardi. Un sorriso, poi le tonache colorate scompaiono dietro la curva e riprendiamo la discesa.