testo di Tito Barbini

Man mano che la nave si avvicina al porto il contorno delle gru, simili a grandi uccelli d’acciaio, escono dalla foschia dell’alba e mi appaiono sempre più grandi e reali nelle loro dimensioni. Scorgo anche i tetti delle case di Montevideo, i campanili e le palme che gareggiano in altezza. 

Ma più di tutto si staglia in alto il Palacio Salvo.

In origine, ma solo alcuni anni prima che arrivasse qui il mio giovane anarchico ucraino Simon Radowitzky,  sul luogo occupato dall’odierno edificio, sorgeva la pasticceria La Giralda dove  nel 1917 venne suonata per la prima volta il più celebre brano di tango: La Comparsita. 

Nel 1920 i fratelli Ángel, José e Lorenzo Salvo comprarono lo stabile e nel 1923 fu collocata la prima pietra del nuovo edificio. 

I Salvo, imprenditori uruguaiani d’origine italiana, avevano concepito originariamente l’edificio come albergo di lusso, mentre il pianterreno sarebbe stato riservato alle attività commerciali.

Nello stesso periodo a Buenos Aires si andava costruendo l’edificio gemello, progettato anch’esso da Palanti, il Palacio Barolo. 

Un palazzo gemello in Avenida De Mayo che doveva ospitare, secondo i massoni della famiglia Barolo, le spoglie di Dante Alighieri sottratte a Ravenna. Ma questa è un’altra storia che ho già raccontato le mio libro Severino e America.

I lavori di costruzione durarono dal 1925 al 1928. 

Il progetto originario prevedeva inoltre l’installazione nella parte più alta della cupola di un faro con un impianto proveniente dall’Italia. Dalla sua inaugurazione al 1935 anno in cui fu terminato l’edificio Kavanagh di Buenos Aires, il Palacio Salvo fu il più alto edificio dell’America Latina. 

Infine, quando il sole è già alto, la nave attraccò infilandosi tra le altre navi e i rimorchiatori ancorati nei moli.

Sono voluto venire in Uruguay, in fondo è solo un piccolo salto da una sponda all’altra del Rio Della Plata e siccome ero in quei giorni a Buenos Aires non mi è costato nessuna fatica. Anzi. 

Volevo capire meglio cosa era successo in quei mesi, forse qualche anno, in cui Simon aveva abitato a Montevideo. 

Ho trovato pochissime tracce di Simon Radowitzky, qualche articolo di giornale degli anni trenta qualche documento ingiallito nella biblioteca nazionale ma niente di più. 

Una sorpresa è stata invece la scoperta di un vero e proprio cordone ombelicale con l’Italia, come l’Argentina, ma in modo anche diverso. Profondo, sembra più un amore filiale verso una madre.

Forse a dividerci, oltre al calcio quando ci sono i Mondiali, le uniche partite che seguo in televisione,  c’è l’Oceano Atlantico ma certo null’altro. Italia e Uruguay è cemento a pronta presa, prende subito e si asciuga addosso. Se tutto cominciò nel cinquecento con i marinai genovesi che giunsero nell’allora colonia spagnola, fu nell’ottocento e nei primi anni del novecento  che gli emigranti italiani invasero l’Uruguay andando a costituire circa la metà della popolazione e fornendo un contributo decisivo soprattutto allo sviluppo dell’architettura e dell’urbanistica della nazione sudamericana. Anche la politica ha preso a piene mani dal carniere italiano. Non sono granché sicuro ma almeno tre o quattro presidenti della Repubblica erano italiani a  tutto tondo, massoni ma italiani.

La gran parte dei nostri compaesani lavoravano nel settore edile e fu il genovese Francesco Piria a fondare un’intera città che ancora oggi porta il suo nome: Piriapolis. 

Avevo poi una superficiale infarinatura sulle gesta latinoamericane di Giuseppe Garibaldi ma non sapevo il generale fosse l’italiano che più di ogni altro ha segnato la storia dell’Uruguay. 

Forse più di José San Martin, a sua volta celebrato in tutta l’America Latina. Solo Che Guevara ha raggiunto ambedue in popolarità. 

  Il nostro eroe con la camicia rossa partecipò alla guerra civile in cui si scontrarono Blancos e Colorados, questi ultimi sostenuti da centinaia di nazionalisti italo uruguaiani. Il Generale aveva proprio il pallino delle spedizioni intorno al numero mille se nel 1843 costituì la Legione Italiana le cui truppe, composte da circa mille uomini, avevano come bandiera un drappo nero e indossavano, guarda un po’, la camicia rossa, scelta dettata dal destino e non per chissà quale vezzo simbolico. Infatti, ho letto da qualche parte qui a Montevideo, che i volontari combattenti italiani infatti potendo contare su ben poche risorse economiche realizzarono la mitica divisa con panni di lana rossi, solitamente utilizzati dai macellai come camici per celare alla vista le macchie di sangue animali. 

Insomma, non ci crederete ma è proprio in Uruguay che cominciarono a chiamarlo eroe dei due mondi ed è in questo avamposto sudamericano che si forgerà lo spirito rivoluzionario che poi segnerà il risorgimento italiano nei suoi uomini d’azione. 

Non solo ma, se vogliamo dirla tutta,  quella camicia rossa, con le Brigate Garibaldi,  arriverà fino alla lotta partigiana nella mitica stagione della resistenza italiana al nazi fascismo. 

 Come scriverà lo stesso Garibaldi nelle sue Memorie: “L’insofferenza delle popolazioni italiane al dominio straniero, che fosse al colmo, già era manifesto in tutte le corrispondenze che giungevano nel Plata. L’idea del ritorno in patria e la speranza di poter offrire il nostro braccio alla sua redenzione da molto tempo facevano palpitare le anime nostre”. Da Montevideo alle cascate di Iguassu , dove gli uomini della Legione Italiana ebbero la meglio in una battaglia incerta contro 3000 confederati, oggi nel paese sudamericano sorgono diversi monumenti dedicati al patriota italiano e finanche una città porta il suo nome. 

E Simon? No, non lo avevo perso di vista. Le cose che ho scritto prima su Garibaldi le ho saccheggiate su Wikipedia o qualche altro saggio storico di Montevideo

Simon, conosce e forse si innamora di Luce Fabbri anarchica, insegnante, militante nelle alterne vicende del movimento non solo sudamericano, donna di cultura e saggista, rappresenta un punto di riferimento sicuro per un pensiero ed un’azione che affondino sì le radici nella parte migliore della tradizione anarchica, ma non rinuncino a confrontarsi con le grandi questioni che all’umanità si pongono alle soglie del nuovo millennio con spirito critico, senza rigidità dogmatiche, con orgoglio ma anche con la necessaria umiltà. Simon entrò in contatto con Luce la sera del suo arrivo a Montevideo, nel circolo culturale “Bakunin” ritrovo degli anarchici , dove un conferenziere teneva una lezione sul tema “Anarchia e Violenza”. In quel periodo si dibatteva con grande vivacità su questa  questione. A Simon sembrava di essere tornato ai tempi, ormai lontani,  in cui decise di lanciare quella bomba e, con leggerezza,  scelse di stare dalla parte della violenza. Il dibattito e lo scontro tra gli anarchici erano ripresi soprattutto a proposito degli attentati sanguinari compiuti da Severino Di Giovanni.  Venivano fuori gli argomenti più disparati ma in fondo sempre uguali. Uno degli argomenti lo riguardava direttamente. Non sapeva se doveva inorgoglirsi oppure imbarazzarsi. Il tema del dibattito era anche questo:

Era giusto che Simon Radowitzky avesse lanciato una bomba e ucciso Falcon , anche se lui era colpevole del massacro di tanti lavoratori?  Ma la vittima innocente della bomba anarchica , il giovane segretario di Falcon , padre di famiglia cosa c’entrava? Insomma tante, domande e altrettante risposte ma dovrete aspettare il mio libro “Il Fabbricante di Giocattoli”. Alla fine di questo mio viaggio che mi porterà fino alla fine del mondo.